Aveva solo 6 anni e la sua squadra del cuore, finalmente, vinse lo scudetto! Non ci poteva credere, poi, quando il babbo gli disse: “Oggi andiamo a festeggiare al club della tifoseria”! Ancor meno quando, arrivato, i tifosi diedero l’onore alla mascotte di salire sul tavolo per leggere a tutti la prima pagina della Gazzetta dello Sport! La cronaca della vittoria, però, si trasformò ben presto quasi in un cordoglio funebre, perché a scuola non gli avevano ancora spiegato, purtroppo, quelle strane paroline: «Evviva! Urrà!», che lesse impacciato e con tono piatto piatto.
È ciò che accade alla Messa quando, anziché esclamare e cantare «Alleluia!», lo leggiamo con tono dimesso. Ma cosa significa questa parola? Quale sentimento esprime e quale azione liturgica veicola?
Si tratta di un’acclamazione liturgica di origine ebraica, che significa «Lodate Dio!»: da hâlal (= imperativo di lodare) e Yah (= diminutivo di Yahvè). Gesù la ripeteva spesso quando pregava, perché contenuta nei Salmi cosiddetti allelluiatici (Sal 146-150, in cui l’Alleluia è ritornello); certamente, la cantò prima di morire, nell’ultima cena con i discepoli, quando «dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mc 14,26). Era l’inno del Grande Hallel (Sal 136: «Alleluia! Lodate il Signore perché è buono…»), che segue il Piccolo (Sal 113-118: «Alleluia! Lodate servi del Signore…»), cantato invece durante la cena pasquale.
Terminata la II Lettura, il silenzio meditativo lascia il posto all’acclamazione e tutta l’assemblea si alza in piedi per cantare l’Alleluia con cui «accoglie e saluta il Signore che sta per parlare nel Vangelo e con il canto manifesta la propria fede» (Ordo Generale Messale Romano, 62; Ordo Letture della Messa, 23).
L’Alleluia, quindi, è il grido di gioia, di gratitudine, d’ammirazione e di vittoria, perché Dio ha adempiuto le sue promesse vetero-testamentarie, in Gesù Cristo, che ha vinto il “dramma dell’uomo”: il male, la sofferenza e la morte! «Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’Alleluia è il grido di giubilo della Chiesa, quello che Sant’Agostino chiamava «la voce della pura gioia senza parole», perché per esprimere una gioia incontenibile non occorrono frasi: basta una parola, come allo stadio: «Goal!!». E Dio, in Gesù Cristo, ha fatto davvero goal, il più grande Goal della storia: ha vinto la morte! Per questo, forse, la parola ebraica Alleluia non è stata mai tradotta (come non traduciamo goal!, urrà!) e ha potuto ispirare grandi composizioni musicali (si pensi per esempio all’Alleluia di Haendel o ai moduli gregoriani).
Un grido che è entrato subito nella liturgia, come ci attesta il canto dell’Apocalisse (I sec.), che lo pone sulle labbra di una folla immensa nel Cielo mentre contempla la vittoria finale di Dio e le nozze dell’Agnello con la Chiesa resa santa: «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore. Rallegriamoci ed esultiamo, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua posa è pronta» (19,1-8). Quando perciò nella Messa cantiamo “Alleluia!” il nostro canto si unisce all’”Alleluia!” della Chiesa celeste e diventa così un anticipo di ciò che canteremo nella vita eterna, come ci insegna Sant’Agostino: «Cantiamo qui l’Alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri. Felice quell’Alleluia cantato lassù. Cantiamo da viandanti: canta e cammina!».
L’acclamazione al Vangelo è così importante che nella liturgia della Parola è un rito a sé stante (OGMR, 62.37), indipendente anche dal Vangelo, che si limita solo ad anticipare nel “versetto” dell’Alleluia (OLM, 90). Intonato dal salmista è cantato da tutti. È sospeso in Quaresima, perché possa esplodere nella veglia di Pasqua e concludere ogni Messa dell’ottava (settimana successiva alla Pasqua). In passato veniva cantato solo nel Tempo di Pasqua (IV sec.), chiamato anche Tempo dell’Alleluia, e fu grazie a Gregorio Magno che l’Alleluia fu esteso a ogni messa domenicale.
Suo scopo è favorire e realizzare la comunione tra il sacerdote e il popolo (OGMR, 34), che si uniscono in un’unica voce, e la partecipazione attiva dei fedeli (OGMR, 35), che accolgono il Signore presente nel Vangelo proclamato (Sacrosanctum Concilium, 7.33) e gli manifestano la loro fede con il canto.
Tale accoglienza e attestazione di fede diventano davvero commoventi quando il canto dell’Alleluia accompagna la processione dell’Evangeliario, che custodisce la presenza e la voce di Cristo, dall’altare all’ambone (segno che Colui che sta per parlare è lo stesso che verserà il suo sangue), accompagnato dai profumi dell’incenso e dai ceri, segno che la Parola del Signore è la Luce dell’uomo (OGMR, 175).
Dovrebbe essere ormai chiaro che leggere in modo dimesso, piatto, un grido di gioia e di vittoria, è fare esattamente il suo contrario: smentirne il significato mentre si sta pronunciando, come accadde al nostro piccolo amico al club. Deve dire che questo l’ha capito molto bene il Cammino Neocatecumenale: quando le comunità riunite cantano “Risuscitò! Alleluia!”, lo fanno con una tale gioia e passione che si teme il crollo dell’edificio. Il Signore ci conceda di causare simili terremoti in ogni Eucaristia!
Elisabetta Casadei
* Le catechesi liturgiche si tengono ogni domenica in Cattedrale alle 10.50 (prima della Messa).