L’Italia è, in Europa, al quartultimo posto, appena sopra Spagna, Cipro e Malta, per il tasso di fertilità delle donne: 1.3 figli di media, quando per mantenere stabile la popolazione di qualsiasi paese ne occorrerebbero 2.1. La media, nell’Unione Europea, guidata dalla Francia con 1.9 nati per donna, è 1.6. Un dato che giustifica l’aspettativa per una diminuzione, nei prossimi decenni, della popolazione del Vecchio Continente.
Le conseguenze non sono proprio indifferenti.
Perché questo vuol dire, stando alle previsioni ONU, che tra il 2015 e il 2035, la popolazione in età lavorativa, diminuirà di 49 milioni di unità, ammettendo un certo flusso migratorio, e di 65 milioni senza migrazioni: in termini relativi si tratta di un calo del 10.8 oppure del 14.2 per cento. Germania e Italia sono i due paesi che soffriranno le maggiori perdite. E dove, di conseguenza, l’invecchiamento della popolazione procederà a ritmi spediti. Un futuro già presente perché il numero di 449mila bambini e bambine nati in Italia nel 2018, meno della metà di quelli del 1965, è stato il più basso dall’unità d’Italia ad oggi, comprese le due guerre. Per la prima volta ci troviamo nella situazione in cui i nuovi nati, surclassati dai decessi (636mila), sono perfino meno degli ottantenni. Che non lavorano, ma percepiscono una pensione, che qualcuno deve pagare.
In questo scenario non si può sperare che a Rimini accadano cose troppo diverse. Infatti è dagli anni Ottanta del secolo scorso, con un lieve miglioramento nel primo decennio del nuovo, che il saldo naturale, la differenza tra nascite e decessi, volge al negativo. Tendenza che si sta aggravando negli ultimi anni (-643 nel 2016 e -996 nel 2017). In realtà, se in provincia c’è stato un aumento della popolazione (da 322mila nel 2011 ai 339mila del 2018) il merito è quasi per intero dell’immigrazione, della differenza positiva tra chi è arrivato, da altre parti d’Italia e dall’estero, e chi è partito (saldo migratorio).
Perché quando si parla di migrazione, troppo spesso, si dimentica che da Rimini si emigra anche, soprattutto i giovani, tanto che attualmente sono 24mila i residenti in provincia iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero). In pratica, vive all’estero un intero paese come Santarcangelo di Romagna.
Con la crisi anche il saldo migratorio annuale però è crollato (da 7mila del 2013 a circa 2mila di oggi) e questo potrà avere conseguenze, perché gli immigrati, essendo prevalentemente giovani, riforniscono il nostro mercato del lavoro di forze fresche.
Come il cambiamento demografico impatterà l’economia forse si è già intuito, ma questi ulteriori dati lo renderanno più esplicito.
Cominciamo dalla popolazione in età da lavoro (15-64 anni): rappresentava il 69 per cento del totale nel lontano 1961, è scesa al 64 per cento nel 2018. Un calo percentuale che al momento non è diventato assoluto perché nel frattempo la popolazione è aumentata e le persone in età per lavorare sono salite da 134 a 216mila (l’ultimo dato contiene i nuovi comuni dell’Alta Valmarecchia che sono entrati nel 2010 e prima non c’erano). Numeri, soprattutto l’ultimo, che include anche l’immigrazione. Senza sarebbero molto meno.
Parallellamente i giovani (0-14 anni) che nel 1961 rappresentavano il 23 per cento dei residenti, nel 2018 sono crollati al 13 per cento, indebolendo di molto la spinta al ricambio generazionale. E anche qui, giova ricordarlo, la percentuale sarebbe ancora minore se non ci fossero i figli dei migranti residenti.
Come annunciato gli unici a crescere, grazie anche all’allungamento della vita media, un fatto sicuramente positivo, sono gli anziani ultrasessantacinquenni: rappresentavano il 9 per cento della popolazione nel 1961, sono arrivati al 23 per cento. Quasi dieci punti sopra i giovani.
Il cambiamento demografico, anche in questo territorio, è innegabile. Meno chiare sono le risposte per gestirlo. Che richiederebbero politiche pubbliche, ma anche delle imprese, di sostegno alla maternità (asili e altri servizi), al lavoro delle donne, alla genitorialità e in favore dell’autonomia dei giovani. Seguite da servizi per gli anziani, che dovrebbero prevedere un uso più attivo di tanti di loro, che godendo di buona salute potrebbero mettere a disposizione molte competenze acquisite durante la vita lavorativa. Su questo resta molto da lavorare e inventare.