Al Teatro Verdi di Pisa celebrato il centenario dalla morte di Leoncavallo con Edipo re abbinato a La voix humaine di Poulenc
PISA, 1 marzo 2019 – La tragedia greca non ha bisogno dell’ausilio scenografico: la sua efficacia è legata alla potenza comunicativa delle parole. Tanto più se accompagnate dalla musica. E quello che vale per Sofocle è dunque vero per l’Edipo re: opera in un atto, che il poliedrico Giovacchino Forzano – qui in veste di librettista – ha versificato, proprio a partire dal poeta greco, con il consueto e ottimo mestiere, per Leoncavallo.
Al Teatro Verdi di Pisa, come omaggio al compositore napoletano nel centenario dalla nascita, è stato eseguito l’ultimo lavoro – postumo – dell’autore dei Pagliacci, ma non in forma scenica: semplicemente una ‘mise en espace’, con al centro il solo trono del sovrano di Tebe e i sei interpreti vestiti in un asettico nero, così come il coro. Sul lato del palcoscenico, invece, un manichino con un sontuoso e coloratissimo costume: l’abito che il grande baritono pisano Titta Ruffo indossò in occasione della prima, nel 1920, a Chicago. Già storico interprete di Tonio in Pagliacci, quello che era il massimo baritono dell’epoca fu anche il protagonista di Edipo re: opera che, pur essendo rimasta incompiuta, venne completata da Giovanni Pennacchio, collaboratore abituale di Leoncavallo. Se oggi è impensabile trovare un interprete con le stesse fenomenali qualità dello storico cantante pisano, Giuseppe Altomare si è però difeso onorevolmente nel confronto con un’orchestra a tratti molto spessa, riuscendo a comunicare – con una dizione di esemplare nitore – l’angosciosa sorpresa nello scoprirsi figlio della sua stessa sposa e assassino del proprio padre.
All’altezza dell’impegnativo compito anche gli altri interpreti: il soprano Paoletta Marrocu, incisiva Giocasta; il tenore Max Jota, nei panni di un combattivo Creonte; l’impeccabile basso Francesco Facini, assai espressivo nel disegnare l’anziano indovino Tiresia; il tenore Antonio Pannunzio e il baritono Tommaso Barea (apparso fin troppo giovane in assenza di un trucco che lo invecchiasse), rispettivamente nei due piccoli ruoli del Pastore e del Corintio.
Un’esecuzione dagli aspetti comunque sorprendenti , soprattutto per la scrittura orchestrale e corale di Leoncavallo, almeno per chi limita la conoscenza di questo autore ai soli Pagliacci. Dopo i quasi trent’anni trascorsi dal suo maggior successo – un periodo caratterizzato da radicali mutazioni del linguaggio musicale, in Italia e in Europa – Leoncavallo dimostra infatti di aver preso atto delle innovazioni e di averle rielaborate in chiave personale. Sempre ben corrisposto dall’Orchestra Arché (e del Coro Ars Lyrica, preparato da Marco Bargagna), il direttore Daniele Agiman ha saputo ben sottolineare la drammaticità della partitura, valorizzando i contrasti fra gli interventi più melodici, con la loro rassicurante cantabilità, e certe asperità strumentali, prossime alla dissonanza, dove era facile percepire una varietà timbrica che rimandava a Debussy, mentre nelle pagine corali sembrava quasi di sentire riecheggiare le salmodie di Pizzetti.
Data la brevità, Edipo re è stato proposto in abbinamento a La voix humaine, celeberrimo monodramma per una sola protagonista: in questo caso la carismatica Anna Caterina Antonacci. La regia di Emma Dante – con le scene di Carmine Maringola e i costumi di Vanessa Sannino – nasceva per uno spettacolo bolognese di due anni fa, concepito in abbinamento con Cavalleria rusticana. Rivisto a distanza, e senza Mascagni a far da contraltare, appare un po’ sovrastrutturato. Sembra eccessiva la presenza di ben sei attori che, muti, devono visualizzare le proiezioni mentali della protagonista: da un lato dando corpo ai suoi incubi e, dall’altro, contribuendo a crearle attorno un cordone sanitario. La riduzione del dramma a una dimensione esclusivamente borghese attenua così la potenza che la musica di Poulenc imprime al testo di Cocteau, tanto più in presenza di una magnifica interprete come l’Antonacci, capace di un’ampia tavolozza di registri vocali e di una variegatissima gamma espressiva; mentre presentare la sofferenza, causata alla protagonista dal dolore di un abbandono, come fosse un disturbo mentale riduce l’empatia dello spettatore.
L’accostamento, per quanto insolito (sono due lavori separati da un intervallo di quarant’anni), ha trovato un ottimo collante nell’orchestra e nella direzione di Agiman, in grado di valorizzare analogie musicali meno labili di quanto si potrebbe pensare. Sul piano drammaturgico, invece, il confronto fra i due testi suggerisce che non sempre la conoscenza della verità rappresenta la soluzione migliore. Quando Edipo interroga Tiresia per sapere chi è l’assassino di Laio, l’indovino lo avverte dicendogli «Meglio per te non saperlo mai». Allo stesso modo, per la protagonista della Voix humaine sarebbe forse preferibile ignorare se l’allontanamento dell’uomo che ama è davvero definitivo.
Giulia Vannoni