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Alla periferia dell’umano

“Conosco la periferia della vita”, e il suo curriculum è lì a dimostrarlo. Don Giovanni Nicolini non solo è il parroco di Sant’Antonio da Padova a La Dozza (diocesi di Bologna), ma anche del carcere della Dozza e dell’Ospedale Sant’Orsola. Laureato in Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano, attraversa ogni giorno il campo delle ferite di Bologna. Ed è entusiasta di ciò che sta compiendo Papa Francesco in soccorso ai più deboli.

Don Nicolini, secondo il suo punto di vista su quale filosofia si basa la rivoluzione del pontefice?
“Le dico solo che molti testi di teologia morale, se si fosse coerenti con quello che sta succedendo col pontificato di Francesco, andrebbero riscritti. In duemila anni la teologia ha razionalizzato la vicenda di Cristo incastrandola nella filosofia classica. Ma l’antropologia biblica non è razionalista, e questa razionalità è fuori dal tempo, quando invece la fede ebraica vive nel tempo. Il nonno di Gesù è Abramo, non Aristotele. Dio non ha mai parlato fuori dal tempo: parla ad ogni persona, cultura e civiltà. La sua parola deve arrivare dappertutto e a ognuno chiede cose diverse, perché ciascuno è differente. La tradizione classica ha avuto grandi esponenti, ma oggi risulta irrigidita. La sua filosofia e la sua etica non sono più capaci di interpretare la realtà odierna: dicono solo dei no, mentre andrebbero trovati dei sì, e la genialità del Vescovo di Roma risiede proprio in questa ricerca. Da qualche mese mi perdo nello studio dei suoi gesti, delle sue parole, ma sotto tanta semplicità e cordialità c’è un progetto enorme dal quale non si torna più indietro. E la maggior parte di chi va in Chiesa oggi è contenta di questo nuovo indirizzo”.

Dunque una Chiesa che esce dalle sacrestie per affrontare il reale?
“La novità sta proprio nell’uscire. Per troppo tempo la Chiesa si è sentita come una fortezza assediata. C’è un’istintiva attenzione a vedere dov’è il suo limite, quando invece per la Chiesa non dovrebbe esserci. In questo momento i nostri amici atei si sentono molto coinvolti, perché il confine tra Chiesa e umanità sta diventando sempre più fragile e incerto. Ricordiamoci che siamo tutti fratelli. I battezzati hanno la grande responsabilità di annunciare il segreto della Pace, la fraternità universale. La vita cristiana è il ‘fare del bene’: fare agli altri ciò che altri hanno fatto per noi, rendere tutti partecipi. Per questo siamo chiamati ad uscire dalle chiese verso le periferie esistenziali”.

Quello della periferia è un concetto che le è molto caro. Cosa significa vivere in periferia?
“Le periferie si caratterizzano nei luoghi e nelle circostanze. La periferia in cui viviamo, la nostra povertà, è soprattutto di tipo morale, siamo sempre più soli. C’è bisogno della riscoperta di una laicità cristiana che possa annunciare Cristo a chi non potrebbe capirlo se lo si nominasse esplicitamente. Se evangelizzare è una parola troppo impegnativa, pensiamo ad un concetto più semplice: voler bene alla gente così com’è, stabilire un contatto profondo, accettare le persone coi loro vizi, peccati e miserie, perché anche noi ne abbiamo e siamo stati accettati a nostra volta. Molto spesso si vive in periferia perché si è estranei alla fede, però si rimane tutti figli di Dio. Il compito dei credenti è di testimoniare la meraviglia che ci è capitata, voler bene all’altro, così anch’egli esce immediatamente dalla periferia, perché noi l’abbiamo raggiunto. E allora insieme si noterà che non si sta poi più così male”.

A proposito di gente che soffre, lei è parroco sia di un carcere che di un grande ospedale. Com’è avere a che fare tutti i giorni con quel tipo di sofferenza?
“Il carcere è il luogo più lontano dal Vangelo, perché si basa sul pensiero di abbattere il male facendo dell’altro male, quando invece è solo col bene che si elimina il male. Invece i problemi più gravi dell’ospedale sono legati al progresso tecnologico che rischia di disumanizzare la persona con l’eccesso di cure. Dimentichiamo che la morte fa parte della vita. Va bene curare, ma penso sia meglio pensare in termini di accompagnamento del malato, magari attraverso cure alternative che si occupino più della persona che del corpo”.

Quale emergenza vive l’uomo oggi dal punto di vista antropologico?
“Oggi abbiamo delle enormi responsabilità sul futuro che prima non avevamo. Viviamo in un’era che viene definita antropocene, in cui l’uomo è responsabile della realtà. Fino a un secolo fa si pensava che la natura fosse più forte dell’uomo. Oggi è vero il contrario, e rischiamo la distruzione della natura stessa, quando invece andrebbe rispettata.
Ma se si pensa che dopo duemila anni di Cristianesimo ci ritroviamo un miliardo di persone che soffrono la fame, vuol dire che abbiamo ancora molta strada da fare”.

a cura di Mirco Paganelli