Di Alberto si sono sempre sottolineati l’impegno nel sociale, in particolare durante e immediatamente dopo la guerra, la carità verso i poveri, la vita di preghiera, mentre è rimasto un po’ in ombra il suo impegno nei confronti dei giovani. Eppure ha assorbito una parte non certo trascurabile del suo tempo e delle sue energie, ed è stato da lui vissuto come uno dei tanti modi in cui può diventare concreto l’amore verso il prossimo: fu infatti educatore dei ragazzi di Azione cattolica dal 1933 al 1944; nel 1942 e dopo l’8 settembre del 1943, fino alla chiusura delle scuole per via dei bombardamenti, insegnante di tecnologia e disegno industriale presso la Scuola tecnica industriale “Leon Battista Alberti”.
A soli quindici anni lo troviamo impegnato come animatore nell’oratorio della parrocchia dei Salesiani: insegna catechismo, guida gli incontri degli aspiranti di Azione cattolica, organizza la messa dei giovani, organizza recite, partite a pallavolo e a calcio e gite in bicicletta…
Nel diario scrive: Non credere di perdere il proprio tempo trascorrendo anche delle ore coi bambini, cercando di divertirli e di renderli più buoni. Gesù stesso li prediligeva e li voleva vicino a sé. E le parole buone dette a loro non saranno mai troppe.
Già da queste poche righe risulta chiaro quello che fu sempre lo stile del suo impegno in mezzo ai giovani, positivo, capace di esprimersi attraverso il dono discreto, l’interesse premuroso, la condivisione umile di chi intende porsi come compagno di viaggio e soprattutto attraverso la testimonianza.
Anche i suoi non furono anni in cui l’impegno educativo fosse cosa che “andava da sé”:
erano gli anni in cui il partito fascista pretendeva di identificarsi con lo Stato ed esigeva che la Chiesa non interferisse in nessun modo nella cosa pubblica e poco anche nell’educazione dei giovani, eppure egli è riuscito con umiltà e fermezza a educare se stesso e una intera generazione di giovani a “resistere” moralmente, proponendo la possibilità di scelte, di atteggiamenti, di comportamenti, di stili di vita “altri” rispetto a quelli presentati dalla propaganda ufficiale; a mostrare, contro il «me ne frego» fascista, che l’unica libertà che vale la pena conquistare è quella che si esprime nella responsabilità verso il bene comune.
Educare ed evangelizzare per lui erano sinonimi, perché non si può che educare alla «vita buona del Vangelo», all’interno di un progetto di santità “laica”, una santità nel quotidiano, capace di armonizzare la dimensione spirituale con tutte le altre che fanno parte dell’esistenza:
“Per possedere la gioia cristiana dobbiamo servire Dio. Servire Dio nel nostro ambiente abituale, di famiglia, di lavoro, di scuola, di svago. Non crediate che per servire Dio occorra farsi sacerdoti o frati, e neppure occorre pregare sempre in chiesa. Noi serviamo Dio adempiendo scrupolosamente e volentieri il nostro dovere; lo serviamo anche quando ci divertiamo, purché questi divertimenti siano leciti e non siano contrari alla legge ed alla morale cristiana. Qual è l’ambiente nel quale più frequentemente viviamo, o dovremmo vivere, il cui solo ricordo deve riempirci di gioia? La famiglia. Anche solo nell’ambito della vita animale, essa è fonte di gioia che irraggia. Anche lo stesso Gesù ha tanto amato la famiglia e la casa materiale, in cui viveva con la sua famiglia. Ma anche nel nostro lavoro, e con questo intendo qualsiasi genere di lavoro, manuale ed intellettuale, occorre servire il Signore se vogliamo la gioia. Dove sta dunque di casa la felicità? Non molto lontano, vicinissimo anzi”.
Gli “appunti” che stendeva sui taccuini per preparare gli incontri coi giovani appaiono intrisi di una forza straordinaria, che deriva dal fatto che non sono solo cose da dire, ma verità da vivere, da testimoniare, da trasmettere attraverso una relazione educativa diretta e personale, e possono insegnare tanto anche a coloro che anche oggi sono impegnati nel campo dell’educazione, perché amano.
Alberto si mostra preoccupato del fatto che molti giovani abbandonano le associazioni, perché manca in esse un potere «fissatore» (come lui lo chiama), e insiste sulla necessità di tener conto, nella proposta educativa dell’età e della professione, che aiuta, in particolare, sia a conoscere il linguaggio dei giovani, a capire, cioè, il loro modo di vedere le cose, il loro rapporto con la vita, i loro valori; sia affinare il proprio linguaggio, in modo che sia semplice ed efficace al tempo stesso. L’obiettivo, infatti, è cercare di ottenere che i ragazzi obbediscano non per un obbligo, ma per intima comprensione del proprio dovere e si pongano nella disposizione d’animo per viverlo allegramente: più che attrattiva dell’ideale, persuasione del dovere. Sincronizzarci per sincronizzare è la metafora che lui usa e che traduce bene la cifra del suo modo di relazionarsi con i giovani, fatto di presenza attiva, amichevole e rassicurante e nello stesso tempo stimolante a sviluppare le proprie doti di natura e di grazia.
Alberto è un amico che fa crescere, che cerca la presenza da persona a persona, dialoga con chi è vicino, scrive a chi è lontano, va a cercare in bicicletta chi non si fa vedere da tempo e sprona tutti a mantenere gli impegni anche quando ci sarebbero occasioni di distrazione.
Il suo intento è comunicare con gioia la gioia, come servo e non padrone degli altri. L’educatore è a servizio della verità che è spirito e vita, non di teorie prodotte per il gaudio intellettuale della nostra razionale investigazione, perciò il magistero della verità non può essere disgiunto dalla carità:
“Non solo dobbiamo essere l’intelligenza della società, ma anche la spiritualità viva. Intelligenza non è solo saper meglio, non è solo acutezza della mente, ma è anche finezza del cuore, è sapienza delicata di comprensione, è atteggiamento intelligente e amoroso del cuore che sa ascoltare le anime, che sa avvertire i bisogni dei fratelli, è amore, oltre che ingegno”.
Amorevolezza che diventa comprensione umana, paterna e fraterna, e porta a vivere la vita dei ragazzi e ad amare ciò che essi amano: “amare ciò che amano i ragazzi, affinché i ragazzi amino ciò che noi amiamo”.
L’umiltà accanto alla carità deve essere tra le doti dell’educatore. Umiltà che nasce dalla consapevolezza che, quando abbiamo concluso una attività al meglio delle nostre possibilità, siamo comunque “servi inutili”: Dio ha voluto la nostra collaborazione, ma ha riservato a sé il privilegio di elargire i doni materiali e spirituali. Perciò si devono, è vero, tenere sempre gli occhi fissi sulla bussola, ma senza smanie di onnipresenza e di onnipotenza, con tranquillità d’animo, senza diventare schiavi del lavoro.
L’umiltà ha ampiezza di vedute, è rispettosa della libertà degli altri, sente l’esigenza del contatto amichevole con l’altro.
L’umiltà è paziente, perché sa che crescere è difficile; sa che quello dell’educatore è un “lavoro” lento, che non richiede fretta, perché il seme che si getta ha bisogno di un tempo per maturare e il quando non è l’uomo a stabilirlo. Perciò aiuta, consiglia, valorizza gli sforzi dei giovani, in una prossimità comprensiva e rassicurante.
L’umiltà è sapere che la fatica dell’impegno non si vive da soli: “Dove non si arriva con l’azione arrivo con l’orazione; con l’orazione ho l’onnipotenza di Dio a mia disposizione”.
Soprattutto, chi vuol essere apostolo della luce, deve «deporre ogni impurità e malizia», perché è l’esempio il primo, grande ed efficace magistero della verità. La parola di Gesù: «Chi fa la verità viene alla luce» deve essere, quindi, il fondamento del metodo di ogni educatore cristiano.
Sul valore dell’esempio Alberto insiste molto, perché chiarezza di idee, saldezza di convinzioni, fermezza di volontà, pazienza, carità, umiltà, servizio, per quanto importanti, rischiano di essere solo parole, se non sono rese credibili dall’esempio. L’esempio, infatti è il primo grande ed efficace magistero della verità:
“Come possiamo servire amando i nostri compagni? Essendo loro di esempio in ogni momento. Innanzi tutto questo nostro essere, esempio vivo di verità, non è che lo splendore del nostro essere cristiani e non possiamo non esserlo: pena il non vivere più cristianamente.
Dobbiamo al prossimo lo stesso amore che dobbiamo a Dio: come doniamo a Dio l’ossequio delle nostre opere virtuose, così dobbiamo donare al prossimo la carità del nostro vivere e operare cristiano”.
E fu la capacità di essere esempio, di vivere gli ideali che proponeva con serena e sorridente coerenza, in mezzo ai problemi piccoli e grandi di cui è intessuta la vita di ognuno, a conferire ad Alberto quella straordinaria autorevolezza che è la caratteristica forse più originale del suo modo di farsi incontro agli altri, in famiglia come nell’associazione, a scuola e nel lavoro, tra le macerie della guerra e nella fatica della ricostruzione.
Cinzia Montevecchi