Al Teatro dell’Opera di Roma Manfred di Schumann su libretto tratto da Byron affidato alla voce di Glauco Mauri
ROMA, 20 aprile 2023 – Nato dalla simbiosi tra due massimi rappresentanti del romanticismo – il poeta inglese George Byron e il compositore sassone Robert Schumann – il ‘poema drammatico in tre parti per soli, coro e orchestra’ Manfred è divenuto famoso soprattutto grazie alla sua Ouverture, eseguita spesso anche da sola.
Seppure non concepito espressa-
mente per il teatro, il testo in versi scritto da Lord Byron fra il 1816 e il ’17 era già approdato sul palcoscenico londinese senza esiti troppo favorevoli, suscitando un interesse circoscritto al solo significato letterario: non è un caso che in Italia ne fosse rimasto affascinato un intellettuale cosmopolita come Silvio Pellico.
Le reminiscenze del protagonista, che ripensando al passato evoca spiriti e demoni – come già pochi anni prima Faust in Goethe – qui si complicano, adombrando una torbida vicenda verosimilmente autobiografica, che suscitò più di una diffidenza nei confronti del poema. Oggi Manfred viene ricordato soprattutto per le musiche di scena che Schumann compose nel 1849 in uno degli innumerevoli periodi difficili della propria esistenza, tanto che non poté nemmeno assistere alla prima, diretta peraltro da Liszt. Da allora, seppure raramente, viene rappresentato anche in Italia: basterebbe pensare all’indimenticabile versione diretta da Piero Bellugi – più di quarant’anni fa – con Carmelo Bene, che assommava su di sé quasi tutti i ruoli.
Scelta dunque lungimirante, quella dell’Opera di Roma, inserire Manfred nel proprio programma, anche se per una serata soltanto. Lo sforzo produttivo è notevole, non solo per l’organico: orchestra, coro, solisti che cantano in tedesco (il libretto fu adattato da Richard Fohl) e voci recitanti, scelte fra i giovani allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, che invece qui si esprimono in italiano. Nei panni dell’eroe romantico, l’attore Glauco Mauri: novantatré anni a breve. Seppure un po’ penalizzato dall’amplificazione resa necessaria perché la voce deve spesso sovrapporsi all’orchestra a pieno volume, l’anziano attore è stato un protagonista di straordinaria intensità. Ha sfoderato una gamma di registri vocali da far invidia a un cantante, riuscendo a imprimere notevole tensione emotiva alla figura di Manfred, qui certo più vecchio di come l’immaginava Byron, ma perfetto nei panni di chi sta traendo l’estremo bilancio esistenziale. Il protagonista evoca così alcuni spiriti – molto apprezzabile il primo, cantato dal giovane contralto Jasmin White – e progressivamente entra in relazione con i diversi personaggi: dal cacciatore che riesce a distoglierlo dal suicidio a un abate che tenta di redimerlo. Ma soprattutto ripensa alla donna amata, Astarte, personaggio che adombra la sorellastra – fu questa scabrosa situazione a rappresentare uno stigma nei confronti del poema – entrando in dialettica con una musica densa di fremiti, fino alla conclusione in cui si assiste alla lotta fra gli spiriti che si contendono la sua anima. E spira da autentico eroe, senza aver ceduto ad alcun tentativo per trascinarlo da una parte o dall’altra.
Sul podio Michele Mariotti, attuale direttore musicale del Teatro dell’Opera, ha avuto un avvio un po’ in sordina: nella celebre Ouverture non si avvertivano quelle inquietudini che rappresentano una prerogativa dell’intero romanticismo musicale tedesco e che Schumann declina in modo del tutto personale. Nel prosieguo, invece, Mariotti si è impegnato soprattutto a valorizzare gli aspetti più cantabili della partitura: operazione non semplice in presenza di voci recitanti, alcune anche piuttosto acerbe e spesso costrette a sovrapporsi alla musica. Ha così messo a segno il pieno successo della serata, scandito dall’affettuoso applauso del pubblico nei confronti dell’anziano Mauri.
Giulia Vannoni