Il copione è ormai definito: spunta l’antennone sul tetto di un albergo e si alza il coro “Ma dove andremo a finire? E che immagine diamo ai turisti?”.
Premesso che gli antennoni non sono per niente belli ma non è che il nostro lungomare abbia lo skyline di un isolotto caraibico, io auspico che andremo a finire nella compensazione tra richiesta e domanda. Nel senso che, come dovrebbe essere noto a tutti, la telefonia digitale per limitare i danni da elettrosmog deve trovare l’equilibrio tra chi cerca il segnale e chi lo rimanda. Se una selva di antenne concentrate in poco spazio sarebbe deleteria, è nocivo anche tenere in mano dispositivi assetati di un segnale che non c’è (per cui quando si passeggia in montagna, dove il segnale è notoriamente scarso, fare telefonate è puro autolesionismo, soprattutto senza auricolare). Sui lettini delle nostre spiagge si vedono sempre meno libri in mano e sempre più smartphone. Piaccia o no, nelle zone turistiche serve segnale – controllato e ponderato – altrimenti i turisti vanno altrove.
Un po’ come quando arrivò il Wi-Fi nelle stanze degli alberghi: all’inizio molti storsero il naso, oggi non dare il Wi-Fi è voler uscire dal mercato.
E in Italia c’è pure qualcuno che negli ultimi anni ha buttato lì l’idea dello smart working in spiaggia: chi può permettersi di lavorare con un portatile venga pure in bermuda e infradito, noi gli diamo ombra, spritz e segnale. L’idea non pare avere attecchito, e per fortuna: la spiaggia è giusto che rimanga il luogo del divertimento e del cazzeggio. Magari con un buon libro, ma chi di noi è disposto a lasciare il telefonino a casa alzi la mano. E non lo nasconda dietro la schiena con l’altra.