Al Teatro dell’Opera di Roma Il flauto magico concepito dai registi Barrie Kosky e Suzanne Andrade come all’epoca del cinema muto
ROMA, 14 ottobre 2018 – Un Flauto magico impaginato come un film ai tempi del cinema muto. È un modo originale, e soprattutto molto efficace, per risolvere la perenne difficoltà che s’incontra nel mettere in scena il capolavoro mozartiano, senza far avvertire le fratture tra le diverse componenti – parti in musica e dialogate – tipiche del Singspiel.
Lo spettacolo firmato da Barrie Kosky e Suzanne Andrade, fondatrice del gruppo teatrale londinese “1927” (l’anno che segna l’avvento del cinema sonoro), è approdato al Teatro dell’Opera di Roma, suscitando entusiasmo nel pubblico. Da quando è nato, sei anni fa alla Komische Oper di Berlino, la tappa romana rappresenta la ventitreesima nel lungo itinerario di questo allestimento, accolto ovunque con grandissimo successo. Del resto – e questo è un pregio non di poco conto – anche chi ha scarsa dimestichezza con Die Zauberflöte può seguire la stratificata vicenda con estrema facilità. Di fatto il meccanismo su cui si basa lo spettacolo è estremamente sofisticato: la messinscena ha richiesto lunghe prove e cambiamenti nel cast perché non tutti gli interpreti – specie chi soffre di vertigini o è troppo alto – erano in grado di affacciarsi, a sei metri di altezza, su edicole girevoli poste nella parete di fondo.
Il palcoscenico appare come una specie di schermo su cui scorre la pellicola e i personaggi, che indossano gli abiti molto belli ideati da Esther Bialas (oscillanti fra un tardo ottocento e gli anni venti), strizzano naturalmente l’occhio al cinema: Papageno ricorda Buster Keaton, Pamina evoca Louise Brooks e Monostatos sembra il Nosferatu di Murnau. Oltre a entrare e uscire dallo schermo ruotando nelle loro edicole, i cantanti devono anche raccordarsi con le immagini proiettate: una sincronia tutt’altro che facile da raggiungere. La macchina però è rodatissima e ogni gesto appare perfettamente naturale. I dialoghi, grazie a un’opera di estrema sintesi, sono ridotti a poche frasi, proprio come le didascalie di un silent movie, mentre al fortepiano vengono eseguite musiche mozartiane di altra provenienza.
L’unico rischio è forse un’eccessiva semplificazione: spetterebbe dunque alla partitura affermare il proprio ruolo, senza appiattirsi sulle immagini. La direzione di Henrik Nánási, alla guida di un’orchestra corretta ma con scarso mordente, è apparsa invece un po’ monocorde e non troppo caratterizzata sul piano drammatico, tanto più per un capolavoro sfaccettato come Il flauto magico. Gli interpreti, molto bravi sul piano scenico, hanno incontrato talvolta qualche difficoltà su quello canoro: di certo la distanza rispetto a orchestra e direttore non li ha agevolati, impedendo ad esempio il perfetto appiombo ritmico alle tre Dame (Louise Kwong, Irida Dragoti, Sara Rocchi). Una Pamina suadente e incisiva è stata Amanda Forsythe; molto efficace Juan Francisco Gatell, che disegna un accattivante Tamino; corretto il Papageno di Alessio Arduini, sebbene il suo fraseggio non sia particolarmente articolato; a suo agio, anche negli affondi più gravi, il Sarastro di Antonio Di Matteo. Se Olga Pudova, come Regina della Notte, ha sfoderato soprattutto apprezzabile sicurezza in acuto, ma senza troppe unghiate, è difficile trovare qualche pur minimo momento valido nella prova di Marcello Nardis, un grigio Monostatos. Notevoli i mezzi esibiti dal baritono Andrii Ganchuk, nell’episodio dell’Oratore, e lodevoli anche i piccoli Giulia Peverelli, Ercole Cortone, Bianca Ragozzino: i tre Genietti. Dispiace solo per l’apprezzabile Papagena di Julia Giebel: il suo personaggio è stato quello forse più sacrificato dalla macchina dello spettacolo, disinnescando quello straordinario momento di stupore – quando Papageno e la sua futura sposa si riconoscono – che rappresenta uno dei vertici musicali più sublimi di questo capolavoro.
Giulia Vannoni