“Le afriche non hanno bisogno di beneficenza, ma chiedono giustizia”. Il forte richiamo arriva da padre Giulio Albanese, relatore all’incontro “Le Afriche e il mondo fra pace e guerra. Un passato diverso e un futuro comune”. Un’iniziativa promossa dall’Azione Cattolica diocesana, che si è svolta venerdì 31 gennaio in Sala Manzoni a Rimini, in occasione del Mese della Pace.
Perché “Afriche”?
“Africa al plurale perché è un continente grande tre volte l’Europa, un vero crogiolo di culture, una realtà distante anni luce dal nostro immaginario – spiega padre Albanese –. Le Afriche rappresentano uno straordinario dono all’umanità. Non solo perché sono state culla di civiltà millenarie, ma perché all’inizio di questo nuovo millennio ricoprono un ruolo strategico. Purtroppo il nostro atteggiamento, nei loro confronti, è paternalistico. Le guardiamo dall’alto verso il basso e ci sentiamo la coscienza a posto per le briciole, la beneficenza, che inviamo. Le Afriche non sono assolutamente povere se si guarda alle loro ricchezze naturali, semmai sono impoverite”.
Come porsi allora nei loro confronti?
“La prima forma di solidarietà è l’informazione. Sappiamo poco o niente di quanto succede in questo continente al quale è riservato ancora un ruolo molto marginale nel circuito mediatico internazionale. Eppure nelle Afriche, in questi ultimi anni, si sono combattute le più cruente e violente guerre dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Conflitti “dimenticati” dai mezzi di informazione dove tanta umanità dolente è stata immolata sull’altare dell’egoismo umano”.
Perché?
“Le guerre africane hanno come obiettivo il controllo delle immense risorse minerarie di questo continente. Gli interessi economici hanno sempre preso il sopravvento tanto da determinare situazioni di costante belligeranza.
Nella crisi sierraleonese si combatteva per i diamanti e il rutilio, una lega naturale di columbio e tantalio usata per i circuiti elettrici. Il tantalio è utilizzato anche per la componentistica interna dei cellulari e delle play-station oppure nella tecnologia militare in sostituzione dell’uranio impoverito. In Somalia c’erano interessi legati al petrolio e all’uranio così pure nel Darfur dove si è verificato un vero genocidio tra la popolazione civile.
I movimenti ribelli, opposti alle forze governative, non hanno motivazioni ideologiche. Essi sono composti da mercenari che si avvalgono anche di bambini-soldati, le prime vittime di queste guerre dimenticate. Ragazzi e ragazze arruolati forzatamente e mandati allo sbaraglio sotto l’effetto di sostanze stupefacenti”.
Chi è responsabile di tanta violenza?
“C’è chi dà la colpa agli africani, alle leadership locali corrotte, e chi punta il dito contro l’Occidente. Le responsabilità sono condivise e non tutto va male per colpa degli americani e degli europei perché oggi c’è un coinvolgimento crescente della Cina.
C’è un processo di neocolonialismo che si sta radicando nel continente per cui ci sono forti contrapposizioni fra i vari potentati che creano situazioni di instabilità. Questo è evidente nel Corno d’Africa, la linea di faglia tra Occidente e Oriente. Da una parte vi sono gli interessi soprattutto degli Stati Uniti e dall’altra quelli non solo del movimento islamico, ma in particolare modo della Cina, un potentato che sta condizionando notevolmente il futuro delle Afriche”.
Ci sono “segni” di speranza?
“Le Afriche invocano la pace, come armonia e convivialità tra le parti e ispirata alla fratellanza universale. La società civile africana sta interpretando questa vocazione e dal 2000 ad oggi c’è stata una diminuzione dei conflitti. Il cammino comunque è ancora lungo perché se in alcuni paesi sono cessate le ostilità, non vuol dire che sia scoppiata la pace perché c’è ancora sperequazione tra ricchi e poveri e questi ultimi sono la stragrande maggioranza della popolazione. Eppure la società civile (gruppi, associazioni e movimenti), soprattutto giovani e donne, sono impegnati in prima fila nel tentativo di cambiare le regole del gioco e fermare i “signori della guerra”.
In questi anni ci sono stati dei progressi e anche il mondo missionario ha dato una straordinaria testimonianza. Ho definito simpaticamente, molti dei miei confratelli, sacerdoti e religiosi, “caschi blu di Dio” cioè una forza di interposizione pacifica tra governativi e ribelli, tra opposti interessi.
La grande sfida è quella di comprendere che abbiamo un destino comune, noi e loro, nel “villaggio globale”. I problemi delle Afriche sono le nostre inquietudini”.
Come possiamo impegnarci per un mondo più umano, solidale e aperto alla sussidiarietà?
“Di fronte a queste sfide la prima forma di missione è la preghiera. Se i missionari trovano la forza e il coraggio di andare avanti in queste periferie del mondo è perché stanno in ginocchio, altrimenti non si va da nessuna parte.
Poi c’è l’informazione: in Italia si legge e si pensa poco. Occorre documentarsi e impegnarsi personalmente a cercare notizie su quanto accade nel mondo.
Un terzo aspetto è legato ai nostri stili di vita, dobbiamo mettere in discussione il nostro modo di vivere, evitando, ad esempio, gli sprechi alimentari. Viviamo in una società dell’usa e getta, prima ancora di essere cristiani siamo soprattutto dei consumatori mentre c’è tutto un magistero della Chiesa che ci indica stili di vita alternativi, incentrati sulla sobrietà.
Poi c’è la solidarietà fattiva. In Italia è in atto un grande movimento solidale, ma troppo ispirato alla beneficenza. Dobbiamo superare il sentimentalismo e coniugare la solidarietà con la sussidiarietà, ma soprattutto c’è bisogno di discernimento. C’è un’esagerazione di onlus: tutti si sono improvvisati benefattori ed esperti di cooperazione, ma spesso i progetti non stanno in piedi perché non c’è esperienza e conoscenza e tanti progetti non rispondono al criterio della sostenibilità. Inoltre non c’è un’azione unitaria, è quindi necessario e si impone un maggiore coordinamento che in ogni Diocesi dovrebbe avvenire attraverso l’Ufficio missionario Missio per la cooperazione tra le chiese. Per aiutare il prossimo, favorire il bene comune, non basta il cuore ci vuole anche il discernimento, la ragione”.
Francesco Perez