Al Comunale di Bologna i ‘Dialoghi delle Carmelitane’ di Poulenc con il suggestivo allestimento di Olivier Py valorizzato da un bel cast
BOLOGNA, 13 marzo 2018 – La forma dialogica, ideale per il ragionamento filosofico, non sembrerebbe la più adatta al palcoscenico operistico. Invece, fin dal primo impatto, i Dialogues des Carmélites sembrano possedere quella immediatezza che è propria del grande teatro: funziona benissimo tanto la pièce del grande scrittore Georges Bernanos (unico testo da lui scritto per la scena) quanto l’opera di Poulenc, con l’adattamento librettistico di Emmet Lavery, che ebbe il suo battesimo alla Scala nel 1957.
Al Comunale di Bologna è stato scelto, come secondo titolo del cartellone, un pluripremiato allestimento parigino del 2013, con la suggestiva regia di Olivier Py (attuale direttore del Festival di Avignone), dove l’aspetto visivo stabilisce una corrispondenza pressoché ideale con la vicenda, storicamente documentata, delle sedici suore carmelitane uccise nel 1794 durante il regime del Terrore. Nello spettacolo domina un grigiore plumbeo: sia nello spazio scenico – una specie di scatola modulabile, su cui si allungano cupe ombre – sia nei costumi senza tempo (entrambi a firma Pierre-André Weitz).
A rischiarare tanto grigio solo qualche rapida immagine che evoca, o così sembra, il candore di certe sacre rappresentazioni. Potentissimo l’effetto, a conclusione del primo atto, dell’agonia di Madame de Croissy (priora del convento) che si consuma in un letto disposto in verticale: la prospettiva deformata dal sapiente gioco di luci ordito da Bertrand Killy lo fa apparire orizzontale, come collocato in una profondità ultraterrena. Un cielo stellato fa da sfondo al martirio finale: le suore, cantando il Salve Regina, si limitano a cingersi simbolicamente il collo con le proprie mani, lasciando il compito alla sola orchestra di evocare la ghigliottina. La morte condivisa assumerà, così, un risvolto quasi rassicurante, dove la paura del “dopo” è finalmente vinta.
Cast interamente francofono, indispensabile a valorizzare la verbalità di quest’opera, con interpreti molto ben calati nei propri personaggi in virtù di un accurato lavoro registico. Perno drammatico, la giovane Blanche de la Force: nei panni della fragile novizia il soprano Hélène Guilmette ha saputo trasmettere, con voce morbida e timbro gradevole, le angosce di questa giovane che sceglie il convento come rifugio. Autentico mezzosoprano, a suo agio anche negli affondi gravi, Sylvie Brunet – l’anziana priora del Carmelo – è riuscita a rendere i tormenti del suo angoscioso trapasso con grande intensità e, al tempo stesso, perfetta misura. Alla Suor Constance di Sandrine Piau, nota barocchista, mancava forse un po’ di quella freschezza vocale necessaria a una novizia, ma il suo personaggio era ben costruito sul piano interpretativo. Sophie Koch ha delineato con un ricco e variegato fraseggio l’austera – ma non immune da qualche cedimento di tenerezza – Mère Marie, colei che quasi spinge al martirio le consorelle mentre, per ironia del destino, sarà l’unica a essere risparmiata. Marie-Adeline Henry, come Madame Lidoine, è stata in grado di comunicare la rassicurante dolcezza e serenità infusa alle consorelle prima della morte. Sul versante maschile si è imposto Stanislas de Barbeyrac, che ha sfoderato notevoli mezzi tenorili nei panni del fratello di Blanche. Ben risolta dal baritono Nicolas Cavallier la figura del loro padre, così come quella del cappellano, interpretato dal tenore Loïc Felix. Buona anche la prova del coro, limitato alla sola componente femminile.
Il quarantacinquenne parigino Jérémie Rhoer ha diretto l’Orchestra del Comunale con chiarezza d’intenti, realizzando un efficace equilibrio fra le asprezze novecentesche e la cantabilità della partitura; meno concentrato, invece, sulle sfumature dinamiche, che risentivano di un certo eccesso di omogeneità. Pubblico non troppo numeroso, ma rimasto conquistato da un’opera sconosciuta a molti (incredibile per un capolavoro di tale levatura, ma i Dialoghi delle Carmelitane sono approdati a Bologna per la prima volta). Comunque, la miglior dimostrazione che siamo di fronte a uno dei vertici del novecento.
Giulia Vannoni