Il mondo cambia, i vecchi costumi si perdono nel tempo, sfumati con le vecchie generazioni, e ci si ritrova a vivere con nuove abitudini, di cui spesso si ignora l’origine. Ma ci sono tradizioni che ancora resistono, legate soprattutto alle grandi festività annuali.
Prima tra tutte è il pranzo di Natale. Il menù è da sempre in mano alla mater familias – detta azdora nel gergo locale – che non transige su un punto assolutamente imprescindibile: i cappelletti in brodo. Se non mangi i cappelletti in brodo a Natale, probabilmente non sei Romagnolo, o, se lo sei e ti scoprono, ti tolgono la cittadinanza…
I cappelletti in brodo, piatto tipicamente invernale, in alcune famiglie riminesi si mangiano solo a Natale. Capita poi che si trovino in tavola anche per gli altri giorni delle festività e spesso anche a gennaio, perché la sera di Natale, come vuole la tradizione, la famiglia si mette attorno ad un tavolo e dà il via alle danze, preparando sfoglia e ripieno per un numero quasi infinito di cappelletti che non si esauriscono col solo pranzo natalizio.
Nonni, zii, nipoti, figli e i più piccoli a giocare e a mangiare – quando riescono a farlo senza essere visti – pezzi di pasta e ripieno crudi. Ecco, questa è l’immagine da cartolina pre-festiva romagnola. La tradizione è viva e prospera, ma ha ceduto qualcosa e si è adeguata ai tempi. Raramente c’è tutta tutta la famiglia attorno al tavolo, quando va bene ci si limita alla triade mamma/nonna, figlia, ed eventuale figli dei figli. Anche il momento si è spostato dalla vigilia di Natale a qualche giorno prima, spesso il fine settimana precedente. Rimane invariato il luogo – la cucina di casa – e le quantità. Anzi, se possibile queste aumentano grazie alle meraviglie della tecnologia quali congelatori e frigoriferi.
Ma le tradizioni non sono solo rituali. Sì, c’è il gesto, il momento ripetuto e passato di generazione in generazione, ma non sono i particolari a cambiare la sostanza. Anche se molto si è perduto in questa preparazione familiare, è rimasto intatto lo spirito, il momento conviviale e di preparazione di un piatto per tutta la famiglia. Il momento in cui i genitori, le madri, trasmettono alle figlie il loro sapere, non solo culinario.
Un’usanza divertente, è quella del cappelletto a sorpresa. Tra tutti i cappelletti preparati, uno ad uno, tagliando la pasta e mettendo il “compenso” – così viene chiamato il ripieno – se ne fa uno che al posto del misto di formaggi e, o carni – attenzione perché attorno al ripieno si scatenano discussioni e liti che al confronto calcio e politica sembrano inezie da asilo – ha una pallina di pasta. Chi lo trova, nel brodo, avrà fortuna.
Il cappelletto è un pezzo di storia che accomuna regioni e tradizioni popolari tra Romagna, Montefeltro, San Marino, le Marche del nord e anche parte dell’Umbria. È un golosissimo piatto, al punto da lasciarci la pelle: “L’avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massime da preti, si fanno scommesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni”. Lo scrive nel 1811 l’allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi nel rapporto conclusivo dell’Inchiesta napoleonica promossa dal Regno d’Italia.
Stefano Rossini