C’è nel cuore di ogni uomo, specialmente nel dolore e nella prova, il sospetto che Dio sia un padrone che pretende cieca e assoluta fiducia e che ama giocare da una posizione di forza, per vedere se l’uomo regge all’urto di richieste inaccettabili. Il racconto del sacrificio di Isacco (Gn 22,1-18) attraversa proprio tale sospetto, provocando il lettore a confrontarsi con le proprie immagini di Dio. Inoltre l’intreccio è abilmente costruito per cooperare con un lettore coinvolto dalla “prova” di Abramo e interessato a conoscere il vero volto di Dio.
All’uomo occidentale questo racconto suscita grandi paure e resistenze, perché sembra riproporgli una mentalità sacrificale, in cui l’uomo deve annullarsi davanti a Dio. Non è forse così?
“Nonostante la grande distanza culturale tra l’uomo occidentale di oggi e il contesto socio-religioso proprio dell’autore biblico, una buona esegesi di questo racconto mostra che l’intenzione del suo autore è di condurre il lettore attraverso quella «prova», di cui l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo fa esperienza. Non a caso fin dal primo versetto il narratore utilizza un verbo importante (nsh), con il quale si indica un procedimento di verifica tra due parti, in cui una parte vuole ottenere dall’altra una «prova». Applicato a Dio questo verbo può acquisire una connotazione particolare: egli infatti non ha bisogno di «prove», perché sa già ciò che c’è nel cuore dell’uomo, ma intende manifestare, attraverso dei segni, le qualità positive che sono nel cuore dell’uomo (cf. Es 20,20 e 2Cr 32,31). Ad esempio in Dt 4,34, con riferimento alle piaghe d’Egitto, si usa un sostantivo, della stessa radice del verbo, che possiamo tradurre con il termine “prove”. Se nel libro dell’Esodo i segni e prodigi delle piaghe sono delle prove nella contesa tra Dio e il Faraone, per rivelare la durezza del cuore del Faraone, invece nel contesto del Deuteronomio queste prove divengono segni e manifestazioni nei confronti di Israele, per rafforzarne la fede nei confronti del suo Dio. Così anche nel nostro racconto Dio vuole rendere evidente l’obbedienza e la fede del suo servo Abramo”.
Ma se Dio non ha bisogno di una “prova” da parte di Abramo, perché tentarlo e manifestare ciò che il lettore sa già, ossia la fede del suo servo?
“Perché non è in questione solo la fede di Abramo, ma anche chi sia veramente Dio. Infatti attraverso la prova è Dio a mettersi in gioco, per produrre dei segni e rivelarsi a colui che agisce con fede e il racconto intende “intrigare” il lettore proprio a questo livello. Proviamo a spiegare come. Il lettore sa fin dall’inizio che si tratta di una prova positiva da parte di Dio e sa al contempo che Abramo non lo sa. Non solo, il lettore è consapevole di tutta la storia di Abramo, delle sue sofferenze fino a tarda età per non avere ancora un erede (cf. Gn 15,1-2;16,1) nonostante la promessa di Dio di una discendenza numerosa come le stelle del cielo, per la quale egli aveva lasciato tutto il suo passato ed era partito (cf. Gn 12,1). Così il lettore immagina quanto il comando di Dio sia per Abramo qualcosa di assolutamente incomprensibile, dal momento che gli chiede di sacrificare il figlio prediletto, donato da Dio stesso, dopo tanti anni di attesa e con un miracolo che ha vinto sulla sterilità e la vecchiaia di Sara. Nonostante l’assenza di introspezioni nel personaggio, la sofferenza di Abramo emerge da alcuni dettagli. Egli prima sella l’asino per partire e poi però spacca la legna, come a voler ritardare la partenza. Inoltre in mano al figlio non mette oggetti pericolosi come il coltello o il fuoco, ma solo la legna. Infine la sua tenerezza emerge dal dialogo, in cui essi si chiamano reciprocamente e in modo struggente “padre mio” e “figlio mio” (v. 7-8). Così il lettore è invitato a guardare con trepidazione e compassione ad Abramo e con ammirazione per il suo atteggiamento. A questo punto proprio l’obbedienza di Abramo mette in questione Dio: cosa farà il Signore? Lascerà davvero che il suo servo Abramo uccida il figlio Isacco? Alla prova non è più la fede di Abramo, ma l’immagine e l’identità stessa di Dio”.
Dunque come si rivelerà Dio?
“La risposta del padre alla domanda intelligente di Isacco: ‘Qui c’è il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?’ è pervasa da una fede trepidante nella provvidenza di Dio: ‘Dio stesso vedrà per sé (per lui) l’agnello per l’olocausto’. Ad un primo significato il versetto indica che Dio provvede l’agnello sacrificale per sé. Ma il verbo usato significa ‘vedere’ e il nome che Abramo darà al luogo è: ‘IHWH vede’ (v. 14). Cosa vuol dire questo? Cosa vede Dio? Il significato soggiacente è che per Abramo lo sguardo di Dio, benevolo e provvidente, non si stacca mai dall’uomo, per sostenerlo e favorirlo. Questa fiducia porta Abramo a rinunciare totalmente al possesso del figlio promesso, perché lo considera semplicemente come un dono, di cui egli non è portatore in base ad un proprio diritto. Restituire il dono vuol dire rispettare e accogliere pienamente la rivelazione del donatore, che non si farà attendere. La suspence creata dal susseguirsi delle azioni e la drammaticità di ciò che sta per accadere tengono il lettore con il fiato sospeso. Mentre Abramo alza il coltello, il lettore chiude gli occhi e si chiede se era proprio vero che si trattava solo di una prova: cosa farà Dio? L’intervento dell’angelo che blocca la mano di Abramo all’ultimo momento e il miracoloso segno dell’ariete impigliato in un albero sciolgono questa tensione e rivelano che la vera immagine di Dio è quella di Abramo: ‘Dio vede’, ossia si prende cura dell’uomo, lo ama e gli dona la vita, confermando la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo (vv. 15-18). Se Abramo chiama quel monte ‘il Signore vede’, è perché Dio si è rivelato come il Dio della vita, che mantiene le sue promesse, proprio attraverso il paradosso della prova. Per questo, annota il narratore, fino ad oggi si dice: ‘Sul monte il Signore si fa vedere’, ossia si rivela all’uomo (v. 14)”.
Quindi il racconto può dire qualcosa anche a chi vive la realtà della sofferenza e della prova?
Il racconto non intende “giustificare Dio” o spiegare razionalmente la realtà del male e della sofferenza, ma aiutare il lettore a confrontarsi con le proprie immagini, spesso inconsce, di un Dio paternalista e sadico, che emergono particolarmente nei momenti di dolore e sofferenza. Non solo. Seguendo il percorso di Abramo, il lettore farà esperienza di come Dio può trarre, in modo paradossale, un bene più grande proprio dentro alla prova e potrà così superare la paura profonda di Dio, scoprendolo come colui che non vuole la morte dell’uomo, ma che egli si converta e viva.
Davide Arcangeli