Basta percorrere la Marecchiese o la strada per Coriano per rendersi conto, in una sola volta, della ricchezza testimoniale delle case coloniche riminesi e dello scempio che negli ultimi decenni si è riversato su di esse. Reperti di campagna, veri e propri monumenti storici in cui convivono riti e simbologie d’altri tempi e, al tempo stesso, edifici semi-dimenticati, abbandonati al loro destino da proprietari che non dispongono delle risorse (o della volontà) necessarie per procedere ad un rispettoso recupero architettonico.
Molte strutture, più o meno in rovina, giacciono come fantasmi. E in alcuni casi hanno i giorni contati. Già, perché la casa colonica in questo territorio sembra anche una “razza” in via d’estinzione: quando non sono già intervenute le ruspe, il male minore resta l’isolamento al quale questi superstiti finiscono per essere sottoposti, accerchiati da palazzine ultramoderne (veri e propri condomini di campagna) e insediamenti artigianali e industriali.
Di fronte a questi beni si assiste ad un vero paradosso: da una parte ci sono casi vincolati dove è impossibile per il proprietario che volesse recuperare, avere il minimo margine di manovra; dall’altra ci sono situazioni (e il passato insegna) in cui per taluni è stato fin troppo facile provvedere all’abbattimento.
Ma cosa prevedono a riguardo gli strumenti urbanistici? Partiamo dal Comune di Rimini il cui PRG vigente (così come i nuovi PSC e RUE) distingue tra “edifici o complessi isolati di interesse storico, ambientale e paesaggistico” (sottoposti a restauro conservativo e contrassegnati da una stella) ed “edifici o complessi isolati di interesse storico, ambientale e paesaggistico sottoposti alla modalità di intervento del restauro scientifico” (simbolo: due stelle). Una modalità, questa, prevista per un numero ancora più limitato di strutture, per le quali oltre al mantenimento della facciata e del volume di superficie (capisaldi del restauro conservativo) è necessario rispettare anche i vari dettagli stilistici e architettonici.
Palazzo Castracane, noto anche come Tumba di Spadarolo (sulla Marecchiese, dopo il Peep) è un esempio di casa stellata sottoposta non a restauro scientifico, ma puramente conservativo. Il proprietario (il noto imprenditore riminese Valentini) da anni spererebbe di ristrutturarla e di buttare giù il muro in pietra connesso sostituendolo con file di alberi. Ipotesi che ai “puristi” (e non solo) fa a dir poco raddrizzare i capelli.
Se si pensa poi agli immobili rurali che pur avendo avuto la stella in passato, sono finiti sotto le ruspe, ecco che lo scetticismo regna sovrano. È successo alla casa colonica che, con tanto di epigrafe del 1700, sorgeva nell’area dell’attuale “Colosseo” dell’Ausl. Anche qui la stella, che doveva essere un elemento vincolante nel PRG Benevolo, è stata rimossa con un colpo di spugna a vantaggio di ragioni più urgenti. E stellata (ma non nel PRG vigente) era anche la Casa Michelini Tocci in via San Lorenzo in Correggiano: circa 500 metri quadrati abbattuti poco più di un mese fa dopo che, in cambio di altrettanti volumi di cemento, sono state ottenute 12 villette a schiera. Stesso destino anche per la casa colonica che alla Colonnella sorgeva limitrofa al miliario romano sulla Flaminia. Demolita nel 2002, secondo il Catasto Calindri apparteneva alla seconda metà del ’700. Eppure (possibile?) non era sottoposta a vincoli di tutela da parte degli strumenti urbanistici comunali. Sempre sulla via Coriano, di fronte al “ciambellone” dell’Ausl, è stata abbattuta nelle ultime settimane un’altra casa rurale, molto bella. Gridano da tempo aiuto anche la casa in via delle Officine (zona Pascoli), non stellata e a forte rischio, e la “collega” a pochi passi dalla via Emilia, a Santa Giustina: di proprietà del Comune, andrebbe restaurata. Gode comunque di tutela “de jure” (D.Lgs.42/2004, Codice Beni Culturali) quale immobile di proprietà di un ente pubblico, costruito da oltre 70 anni. Infine c’è una casa che ha i giorni, se non le ore contate: in via della Grotta Rossa, non è sottoposta a vincoli comunali ma ha una proprietà storica non di poco conto: i Conti Lettimi. “Perché non farne un museo della civiltà contadina?” si chiede l’architetto Roberto Mancini, già presidente del FAI, auspicando un interessamento da parte del Comune.
“Il contesto che si è creato attorno a questi edifici non aiuta a porre basi solide per ipotizzarne la tutela” commenta un altro architetto riminese sensibile al tema, Massimo Mori. “Forse in tempi come questi, in cui l’invenduto non impone la costruzione di grossi insediamenti a tutti i costi, la crisi può avere un risvolto positivo: non buttare troppo frettolosamente ciò che sembra obsoleto”.
Alessandra Leardini
(1 – continua)