Tanto attesero l’evento che alla fine ci rimasero. Mangiare uno dopo l’altro trecento cappelletti non è mica uno scherzo, anche per chi ha patito la fame durante tutto il resto dell’anno. Questa sorta di Conte Tacchia (ricordate il film con Montesano e Gassman?) alla riminese non è un parto della fantasia (comunque fervida) romagnola, bensì una documentata testimonianza che elenca numerose vittime dell’avidità a tavola nei primi decenni del 1800.
Le origini
Le radici del cappelletto come piatto portante del Natale riminese affondano nei secoli. Tracce dell’odore fumante s’incontrano anche nella famosa inchiesta napoleonica degli inizi del IX secolo, oltre che in numerose testimonianze orali delle campagne. “È il tipico primo piatto natalizio. – assicura Piero Meldini, storico della cucina ed enogastronomo militante – Mentre nel resto della Romagna furoreggia quello magro, cioè ai formaggi, il ripieno riminese è categoricamente di carne”. E già su questo punto si sentono levare molte voci di dissenso. Eppure le possibilità in tavola sono tre: cappone, vitello e maiale, tre varianti per lo stesso rito atteso spesso con la pancia vuota. “La carne si mangiava raramente. – prosegue Meldini – E in quel contesto sociale perlopiù agricolo, vigeva l’inversione estiva. Mentre oggi si tende a consumare la carne con più abbondanza durante i mesi invernali, allora era preferito l’uso nei mesi caldi, per compensare le grandi fatiche dei campi, dalla mietitura ai raccolti”
Se i riminesi più agiati si potevano permettere un cappone al mezzogiorno domenicale, per gli altri non restava che il Natale (e le grandi feste) per mettere sotto i denti della buona carne, almeno sotto forma di ripieno nel cappelletto, affondato nel brodo il più grasso possibile.
Quello del cappelletto (chiuso a mano, da non confondere minimamente con il tortellino bolognese) era un vero e proprio rito, preparato dalle arzdore in quantità “industriali” per rispondere alle esigenze di bocche affamate e destinato a soddisfare gli appetiti familiari nel giorno del compleanno di Gesù e a Santo Stefano, mentre il “terzo giorno si utilizzavano i ritagli per mettere a tavola una pastasciutta condita con ragaglie di pollo e soffritto con conserva”, il ragù. Meno canonico e più recente, è il tagliolino in brodo, “figlio” delle campagne riminesi, “almeno fino agli anni Cinquanta, come ho appurato attraverso ricerche e interviste” spiega l’esperto gastronomo Michele Marziani.
E poi il bollito
Se il primo piatto non ammette varianti, la seconda portata non brilla per varietà, almeno secondo la tradizione. All’appello risponde il bollito, anticamente accompagnato alla mostarda (di cui sono rintracciabili fabbricanti romagnoli e persino riminesi già nel Settecento), poi alle erbette di campo e oggi abbinato alla salsa, intesa come concessione alla modernità culinaria. “Le famiglie più fortunate potevano concedersi dei salumi, e quando se ne presentava l’occaisone, un cappone arrosto” avverte Meldini. Gli amanti delle verdure potevano gustare quelle meno usuali come il gobbo con besciamella.
Per tutte le stagioni
Ancora più sguarnito il reparto dei dolci, e non solo per Natale: è un versante culinario che nel riminese non ha mai conosciuto tanta fortuna. L’unica ricetta tipica è rappresentata dalla ciambella, un dolce per tutte le stagioni.
Un’antica tradizione contemplava la conservazione di uva bianca in soffitta. I proprietari la custodivano con passione, facendo attenzione di eliminare gli acini ammuffiti perchè non contaminassero quelli buoni. Il 25 dicembre il grappolo veniva portato trionfalmente in tavola “una sorta di uva passita che i nostri antenati consideravano di buon auspicio”. Per rallegrare la festa, diremmo noi, bastava davvero poco.
Paolo Guiducci