Si è chiuso con l’intervento di Daniela Casalboni, Direttore dell’Unità Operativa Dipendenze Patologiche del Sert di Rimini, il ciclo di quattro incontri organizzati dal Centro Elisabetta Renzi, che ha avuto come tema portante il gioco d’azzardo.
Dottoressa, chi sono a livello relazionale i soggetti più portati ad ammalarsi di gioco?
“Sicuramente le persone con atteggiamenti maniacali. Tale comportamento nasce quando a periodi alterni la persona cambia gesti e atteggiamenti, come chi per lunghi periodi di tempo non riesce a dormire, chi ha alterazione dell’umore e qualsiasi altro comportamento che denota una ritualità continua nel ripetere le stesse azioni. Sono soggetti che vivono una vita senza regole precise. In base a questo si possono distinguere tre tipi di giocatori: i più gravi, che sono antisociali, con dei tratti delinquenziali, aggressivi, che raggirano le persone; i vulnerabili emotivamente, con bassa autostima e molto fragili che tendono a chiudersi in se stessi e gli ultimi, i meno gravi, sono quelli che si trovano nello stadio di giocatore compulsivo a causa della disponibilità e diffusione delle macchine da gioco e alla propria disponibilità economica. Bisogna, però, tenere presente che nella maggior parte dei casi sono soggetti ossessivi, che tendono quindi a essere ripetitivi. Queste persone faticano a smettere di giocare perché il comportamento ripetitivo denota anche una incapacità di provare piacere con le cose della vita reale. Basta pensare al soddisfacimento che si prova quando si ha fame e si mangia, quando si ha sete e si beve. Se non traggono soddisfazione da queste cose normali della vita allora tendono a cercare situazioni di rischio, come le sostanze stupefacenti, gli sport pericolosi, la velocità e ovviamente anche il gioco d’azzardo”.
A livello relazionale quanto è importante il nostro stato psicofisico per cadere nel gioco d’azzardo?
“È molto importante perché le persone che hanno problemi relazionali già di natura sono quelle che sono più portate a cadere nel gioco d’azzardo, proprio perché il gioco tende a far chiudere una persona in se stessa. Il gioco è un’attività solitaria che amplifica ulteriormente l’incapacità relazionale del soggetto. Inoltre tra le persone portate a sviluppare la patologia del gioco compulsivo ci sono anche i soggetti con disturbi dell’attaccamento, che non hanno sviluppato durante la crescita una sufficiente autostima. A livello fisico invece, sono stati svolti degli studi sul cervello. Emerge che il lobo frontale di chi è affetto da questa malattia è differente dalle persone che non hanno dipendenze. Nel nostro cervello esiste un centro deputato alla gratificazione, che si occupa del soddisfacimento dei bisogni primari, importanti per la sopravvivenza della specie e per il sostentamento. Nei soggetti che non raggiungono un grado di soddisfazione con le cose normali, come il cibo o l’acqua come dicevamo prima, si nota una malformazione del lobo frontale. Il lobo frontale è importante perché razionalizza i nostri comportamenti e ci fa ragionare prima di agire, eliminando l’impulsività. Chi ha il lobo frontale alterato, non ha senso della misura e continuerà a giocare senza rendersi conto delle proprie azioni”.
Vengono fatti dei test per scoprire queste conformazioni fisiche?
“Certo. Per esempio vengono mostrate al giocatore delle parole scritte con un colore diverso dal loro significato: per esempio la parola rosso viene scritta in verde. Una persona senza dipendenze e con un lobo frontale normale avrebbe comunque delle difficoltà a rendersi conto del reale colore della parola, ma una persona con un problema non riesce a processare queste immagini. Altri test invece si interessano delle reazioni del giocatore davanti alla propria malattia. Vengono mostrati dei video che rappresentano delle macchine da gioco. Alla vista del filmato al giocatore aumenta la frequenza cardiaca mentre alle persone non malate non accadrebbe nulla. Il giocatore poi ha anche difficoltà cognitive. Queste difficoltà sono riscontrabili nella loro insistenza nel sostenere che ripetendo un determinato gesto allora significa che si andrà a vincere. Non è inusuale per l’essere umano questo tipo di comportamento, perché il nostro cervello non comprende il concetto di casualità. Studi recenti hanno dimostrato che anche delle colombe che ricevevano cibo a intervelli di tempo irregolare e casuale, se si accorgevano di riceverlo dopo aver fatto un determinato movimento, continuavano a ripeterlo per favorire l’afflusso di cibo. Anche noi siamo animali. E anche noi diamo un senso a quello che accade”.
Come si intercetta un giocatore?
“Il gioco ha molte fasi, inizia con una vincita grossa, la fase occasionale e si aumenta di continuo l’ammontare della scommessa. Poi inizia la fase della sconfitta, quando il gioco diventa solitario con delle perdite importanti e continue. Infine c’è la fase di disperazione con la perdita dei rapporti famigliari e delle relazioni trovandosi soli. È qui che iniziano i pensieri di suicidio e spesso insorgono anche altre patologie come la droga e l’alcol. Chi se ne accorge sono le persone più vicine al giocatore, le figure di prossimità, come il medico di base, gli assistenti sociali, gli sportelli d’ascolto, gli operatori della Caritas, i sacerdoti e i famigliari. Questi poi sono anche i posti dove il giocatore si può rivolgere”.
Come funziona la presa in carico?
“Prima di tutto dobbiamo ricordarci che ogni giocatore è diverso e presenta una problematica differente. Nella fase di accoglienza raccogliamo la loro storia e cerchiamo di capire che tipo di aiuto vogliono e valutiamo se hanno iniziato a giocare dopo un evento particolare come un trauma o un lutto che possono aver determinato o favorito questo problema. A questo punto viene individuato qual é il problema emergente, quindi se ci sono più problemi in famiglia o al lavoro per esempio. Se invece dopo la valutazione psicologica si scopre che il giocatore ha un problema psichiatrico che ha scatenato la dipendenza, allora il paziente viene indirizzato a me che faccio un’opportuna valutazione caso per caso. I problemi sono vari e varie devono anche essere le cure. Per fare un esempio particolare, ci sono anche persone che aiutiamo per le quali funziona il non smettere del tutto di giocare, ma semplicemente li si può indirizzare verso un altro tipo di gioco che non crea compulsività e tramite il quale non si spendono soldi. Un’altra cosa che si fa è anche un piano di rientro del debito tramite il supporto dei famigliari per riuscire a riempire il buco creato nel conto in banca. È in questo momento che le persone non devono avere a disposizione del denaro o avere un bancomat o carta di credito senza qualcuno che li sostenga. Bisogna fare da tutor per dare aiuto e supporto fino a che non riprendono il controllo della situazione. Nel tempo, si aumentano via via gli spazi di manovra che si concedono al giocatore, fino alla sua definiva guarigione. Perché con la pazienza e l’impegno costante da parte di tutti, guarire è possibile”.
Sara Ceccarelli