Al Teatro Novelli di Rimini il 30 e 31 ottobre la Comunità Papa Giovanni XXIII organizza un convegno nazionale dal titolo “Il coraggio di essere umani”, per comprendere cosa c’è dietro la tratta di tante persone e per capire cosa si può fare per le migliaia di famiglie abbandonate al loro destino per le strade d’Europa, e le barche naufragate nei nostri mari con il loro carico di morte e disperazione. A parlarne saranno rappresentanti istituzionali delle Nazioni Unite, degli organismi internazionali e del governo. Poi giornalisti, docenti universitari e politici. Soprattutto saranno presenti i profughi ospiti delle strutture del nostro territorio. Previsti collegamenti in diretta con i campi profughi e le periferie: Libano, Grecia, Reggio Calabria.
Padre Joseph è siriano, di Aleppo e doveva essere presente al convegno “Il coraggio di essere umani” ma in questo momento si trova proprio ad Aleppo, dove vive la sua famiglia, ed è difficile per lui raggiungere l’Italia.
Da quattro mesi Padre Joseph è vescovo degli armeni cattolici in Grecia, ad Atene. Ha studiato 11 anni a Roma, poi è stato parroco ad Aleppo e presidente del tribunale ecclesiastico. Oggi ha aperto le porte della Caritas e della casa vescovile ai rifugiati siriani che transitano per la Grecia.
Nella sua esperienza Padre Joseph, chi sono i profughi?
“Gente disperata. Ormai non hanno fiducia in nessuno, di nessuno. Gridano «solo in Dio, non negli uomini». In Siria, sia musulmani che cristiani, abbiamo questo detto: «Non mettere mai le speranze negli uomini, ma sempre in Dio». La gente è disperata perché non vede un futuro. All’inizio, quando è cominciato il conflitto, guerra, chiamatela come volete perché c’è una grande confusione… tanti dicevano che sarebbe passata, avrebbe avuto una fine. Ci arrangiamo per un po’… poi passa… ma pian piano la situazione peggiorava. Sempre di più. Ora viene gente a combattere in Siria da 80 paesi al mondo. Combattere per che cosa? Liberare? Chi? Da chi? Vengono i Jihadisti, gli estremisti, gli stranieri… e la nostra terra, un paese che ha 12mila anni di storia di convivenza pacifica tra le religioni, viene martoriata. E poi è una guerra contro i civili, dentro le città, e una guerra di e per gente che viene da fuori. Una guerra sulla nostra terra ma non nostra”.
Ci racconti.
“Di questa guerra non si raccontano le persone, la paura, il pericolo di morte in ogni momento. Ci manca tutto. Per prima cosa manca l’acqua. Il proverbio dice «Dove c’è acqua, c’è vita» anche Gesù ha detto «Sono la luce l’acqua zampillante». Da noi mancano luce e acqua, essenziali per la vita.
Quando la guerra è cominciata è stato immediatamente distrutto il commercio della città di Aleppo. Poi la zona industriale, l’aeroporto; la gente ha perso il lavoro, hanno utilizzato i risparmi e si sono impoveriti. E la vita è diventata sempre più cara, se calcoliamo che un litro di benzina costava intorno a 25 lire siriane e oggi costa 150…, un euro equivaleva a 60 lire siriane, oggi a 350. A un certo punto vedevi le persone che cominciavano a preparare cose in casa, dolci, pane, per venderle. Aprivano dei tavolini davanti alla porta di casa e vendevano. Ma non c’era più nessuno a comprare…
Questa era la vita quotidiana di Aleppo assediata. Nessuno può uscire nessuno può entrare. Non arrivano alimenti. A volte l’unico cibo sono state le cipolle”.
Assediata da chi?
“E chi lo sa? I ribelli? Altri gruppi? Non sappiamo quanti sono. Diversi gruppi vengono da fuori. E poi ti trovi i bambini, i piccoli neonati che hanno bisogno di latte, che manca. Lo scorso inverno mancava il gasolio e la gente andava a tagliare gli alberi per riscaldarsi. Case, palazzi, distrutti, si prendeva il legno dalle finestre per bruciarlo, per riscaldarsi. Quando è venuta a mancare anche l’acqua, allora abbiamo cominciato a scavare nella città, un anno fa c’erano cento pozzi in città, adesso sicuramente saranno molti di più. L’acqua a volte manca per 10/15 giorni, i serbatoi spesso si trovano nei quartieri dove ci sono gli jhadisti. Così la gente, allo stremo, ha cominciato a scappare in massa. Un siriano è un profugo come tutti i profughi, ma il siriano sta scappando non per migliorare la sua vita, non per cercare occasioni di lavoro, non per cercare paesi più belli, ma per sopravvivere.
Il siriano quando fugge, e insisto su questo punto, scappa dalla morte, non semplicemente della guerra, proprio dalla morte.
Scappare dalla morte vuol dire che quando vado a dormire non so se domani mi sveglierò o meno. Usciamo di casa e non sappiamo se torniamo vivi o no; quando camminiamo sulla strada dobbiamo calcolare da quale parte arrivano i missili, «passo di qua, passo di là? A quest’ora no…». Poi spesso all’improvviso, arrivano i missili, peggio ancora ci sono i cecchini che cominciano a sparare di qua e di là, diverse vie vengono chiuse…
In Siria scappano tutti ormai… i bambini, gli anziani, i nostri bravi medici… ora diciamo che non ci è permesso ammalarci, perché nessuno può curarci; non dobbiamo avere troppa fame perché non c’è cibo. Aleppo aveva tre milioni di persone, adesso sono meno della metà.
Diciamo anche che non si deve morire perché non ci sono più cimiteri. Molti morti li seppelliamo nel giardino delle chiese”.
Persone costrette a fuggire… ma lo sanno cosa le aspetta in questi viaggi?
“Ma certo. E qui soprattutto è morta la speranza. L’unica via per poter respirare è quella di uscire. Scappando, sanno bene cosa li aspetta, ma nonostante tutti questi morti nel mare, la gente continua a scappare. Ogni giorno, ancora, oggi, ieri, ora. Hanno paura del mare, però dicono: «Ormai siamo morti, se lo siamo allora tanto vale provare, magari abbiamo fortuna».
Il 60% di siriani è oggi sfollata… alcuni sono ancora in Siria, in altre città, gli altri, nei paesi limitrofi, riescono a vivere solo grazie agli aiuti. Il ruolo della chiesa è stato quello, soprattutto, di incoraggiare la gente ad avere speranza”.