Al controllo passaporti degli arrivi nell’aeroporto della città del Nord Europa c’è una lunga fila ordinata.
Il volo appena atterrato da Roma era pieno e gli unici due italiani a bordo, una donna e un ragazzo, affiancati nei posti a sedere dal caso o forse da un curioso algoritmo di cittadinanza, aspettano il loro turno. Naturalmente, in quanto italiani, sono gli unici due che, per tutta una serie di ragioni analogamente valide, invece del passaporto esibiscono un’egualmente stazzonata carta d’identità. La donna, golfino di cachemire, filo di perle, borsa elegantina, scherza col ragazzo: capelli lunghi, piercing, orecchino e catene assortite su total look nero. Le facezie sono concentrate sul probabile fermo per controlli e lui esprime sincera preoccupazione, non fosse altro per il ritardo conseguente al ritiro bagagli. Il loro turno arriva simultaneamente e i nostri eroi si dividono ai gabbiotti della sicurezza. Il ragazzo metallaro passa senza problemi in un amen e si gira per cercare la donna e salutarla. Ma lei non c’è. Uno sguardo più indietro e la vede ancora alle prese con l’incaricata di sorveglianza che non accenna a lasciarla entrare nel suo Paese.
E in effetti io ero ancora lì. Piantonata da una severissima agente che dopo aver a lungo guardato la foto sulla carta d’identità cercava una qualche corrispondenza tra i due volti di donna: quello stampato immobile sulla carta e quello che la fissava attonita dal vivo. Non è convinta, mi chiede se ho altri documenti che comprovino che quella lì sono proprio io e che io sia quella che pare sia. Armeggio in borsa, chiedendomi cosa ho che non va e maledicendomi per l’ennesima volta per non aver preso il passaporto nel cassetto, viziata dall’abitudine alla libera circolazione europea.
Andrà bene la patente o meglio la carta sanitaria? O forse potrei provare con una delle decine di carte fedeltà che mi si accumulano nel portafoglio? Provo con la patente.
La lady di ferro dall’altra parte storce il naso e passa più volte i due documenti sotto un lettore ottico.
Funziona, ma mi chiede cosa sono venuta a fare da quelle parti e se ho già il biglietto di ritorno. Rispondo all’interrogatorio con la massima calma (e con risposte ritenute congrue) e sventolo la carta d’imbarco del rientro.
Arrivata finalmente a destinazione racconto l’accaduto ai miei famigliari residenti in questa terra straniera che finora non mi si è mai dimostrata ostile. Alla mia indignazione rispondono con una risata e con una domanda impertinente: “ma ti sei guardata?”. Improvvisamente mi vedo con altri occhi: i miei tratti sono inconfondibilmente mediterranei, i colori scuri e la pelle già olivastra è biscottata dal sole di prima estate. In un periodo di migranti che da ogni dove premono alle frontiere, mi sono presentata con un pezzo di carta che sostenevo essere un documento d’identità in cui la donna ritratta in foto, più chiara e con un taglio di capelli cortissimo, non mi somigliava molto.
Chi poteva essere allora questa forestiera anche troppo impeccabile che con noncuranza voleva avviarsi all’uscita? Un’esule siriana?
Una profuga maghrebina? Oppure, Diononvoglia, una pericolosa greca in fuga dal default? Come cambia la prospettiva. Questa volta, al controllo dei passaporti, la migrante sono io: evidentemente straniera in un Paese dove non parlano la mia lingua e mi chiedono chi sono, da dove vengo, perché sono lì e se posso assicurare che non mi tratterrò a lungo. Prima ancora di guardare i miei documenti, la zelante agente mi ha giudicata con i suoi occhi.
Basta l’opinione del pregiudizio per trasformare le persone in indesiderati, in un pericolo potenziale, in un problema. C’è da chiedersi con onestà quante volte lo facciamo ogni giorno. E senza prima esserci guardati allo specchio.
Emanuela Vinai