Rinchiuso per mesi in un carcere a Tripoli. Picchiato e umiliato, costretto a pessime condizioni igienico-sanitarie, a una sola pagnotta, una scatoletta di tonno e una tazza d’acqua al giorno da dividere con altre due persone. Anche questo è il “prezzo” che Umar ha dovuto “pagare”, oltre ai mille euro (risparmio di una vita) già versati per lasciare il Mali e raggiungere la Libia, prima di essere “gettato” con altri 115 “disperati” su un barcone a sfidare la sorte. Umar è uno dei 290 profughi accolti nel Riminese (33 la scorsa settimana). Arrivano dal Mali, come lui, ma anche dalle vicine Nigeria, Costa D’Avorio, Burkina Faso, Senegal, Gambia, Benin, Ghana, Guinea e, ancora, Bangladesh e Pakistan. Un solo migrante è originario della Libia, che gestisce questi traffici di esseri umani. Di loro si occupano una decina di associazioni attraverso i progetti “Mare Nostrum” e SPRAR. Incontriamo Umar alla sede della Caritas diocesana dove è arrivato per la prima volta nel maggio 2014.
Perché sei scappato dal Mali?
“La situazione era diventata insostenibile. A seguito dello scoppio della guerra, i ribelli hanno occupato tutto il paese. Essi cercavano di reclutare i ragazzi per combattere contro l’esercito del Mali. Occupavano le strade, prendevano le persone dagli autobus, nascondevano le armi sotto terra, facevano attentati… Al tempo stesso i militari dell’esercito di Stato passavano di casa in casa a cercare i ribelli e chi collaborava con loro. Temendo di essere preso o dagli uni o dagli altri, decisi di fuggire nel novembre 2013”.
Poi cosa successe?
“Arrivai in Burkina Faso con un autobus, poi partii per la Libia per cercare un lavoro. Qui venni rinchiuso per cinque mesi in un carcere a Tripoli, costantemente picchiato, umiliato, nutrito male e pochissimo. Alla fine venni rilasciato dai poliziotti e messo su una barca per raggiungere l’Italia insieme ad altre 115 persone”.
Cos’hai pensato nel vedere quella barca?
“Che sarei morto. Per giorni abbiamo viaggiato tutti ammassati, in piedi, senza mangiare né dormire. Non avevo più le forze. Poi, finalmente, una nave venne a soccorrerci <+cors>(era ancora attiva l’operazione Mare Nostrum, ndr.)<+testo_band> Riuscii ad arrivare in Sicilia, qui organizzarono un aereo per portarci a Bologna e quindi raggiunsi Rimini e la Caritas. Oggi sono in attesa dell’asilo politico. Non posso tornare in Mali, verrei ucciso. Spero di poter continuare a vivere in Italia, una volta ottenuti i permessi potrò far arrivare qui mia moglie, mio figlio di 4 anni e mia mamma. I miei fratelli rimasti laggiù sperano di imbarcarsi anche loro un giorno, non appena troveranno i soldi. Non si può fare altro, in Mali. Chi governa in Africa è corrotto, non pensa al bene del paese, solo alla ricchezza”.
L’Italia era la tua meta anche all’inizio?
“Sì, ho sempre sognato di venire qui. Ho uno zio in Francia, potrei raggiungerlo ma non voglio. Preferisco aspettare i mese che servono per tutti i documenti. Sto studiando l’italiano e seguo un corso di cucina. Voglio diventare un bravo chef”.
Cos’hai pensato di fronte all’ultima drammatica strage che ha visto morire in mare centinaia di persone nel tentativo di raggiungere, come te, un futuro migliore?
“Queste cose non devono accadere. Le persone che arrivano come me da questi paesi, continueranno a viaggiare, a qualunque condizione. Non hanno altre speranze. E se il mare diventerà troppo pericoloso, non potranno fare altro che cercare altre vie di fuga”.
Alessandra Leardini