La Pasqua è la festa più importante dell’anno liturgico: rammemora la definitiva vittoria di Cristo sulla morte e sugli inferi, colonna e fondamento della fede cristiana. Tuttavia, la resurrezione dai morti, frutto e segno di questo trionfo, non si ottiene se non attraverso la piena e atroce umiliazione del Figlio di Dio. Egli, “il più bello tra i figli degli uomini”, come insegnano le allegorie dei Salmi, sulla Croce è “verme non più uomo”. Combattuta la battaglia su questa terra il Salvatore la prosegue agli Inferi, come già annunciavano le prefigurazioni profetiche e classiche: Giona e Orfeo, Ulisse ed Enea. Nel frattempo il suo corpo, proprio come gli eroi delle mitologie antiche (Patroclo, Ettore, Meleagro) diviene oggetto del pianto corale degli amici e dei discepoli. La grande tradizione liturgica e iconografica ce ne ha dato mirabili esempi, soprattutto quella orientale che, coi riti e con le immagini del Venerdì santo, oggetto di una grande partecipazione corale. Il Compianto (Threnos) cosmico sul Cristo morto a cui partecipano uomini e angeli viene dipinto in miniature e affreschi ed è ricamato sui lini processionali e su quelli d’altare. A queste immagini della cristianità ortodossa s’ispira il Compiantolatino di Giuliano da Rimini (nella foto), per lo splendido trittico dell’Incoronazione della Verginerealizzato intorno al 1315/20, e custodito al Museo della Città. Rispetto all’iconografia bizantina e giottesca qui mancano le potenze angeliche in lutto (forse andate perdute), ma l’intero universo partecipa del pianto, che avviene sulla pietra rossa dell’unzione. A destra e sinistra si aprono i monti gemelli, immagine antichissima del passaggio iniziatico verso gli Inferi e verso il Cielo che, ai cristiani, ricordano la discesa al Limbo del Salvatore, tra doppie scarpate, e le due rocciose rive del Giordano nel Battesimo di Cristo, immerso nelle acque, dando forma a quel sacramento per cui noi siamo uniti alla sua morte e alla sua resurrezione. La Vergine abbraccia il Figlio morto con lo stesso trasporto affettivo che troviamo nelle icone della “Madre di Dio della tenerezza”. Assistono commossi al lutto Giovanni apostolo ed evangelista, Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, accompagnati da quattro pie donne. Tra queste la bionda Maddalena bacia i piedi piagati di Gesù: è una metafora della devozione eucaristica per cui il Corpus Christi è disteso sulla pietra/altare: In antico la tavola sacrificale era detta tumba o sepulcrum.
Lo stesso significato ha il rosso sacello del magnifico Cristo compianto dagli Angeli di Giovanni Bellini (fig. 2) sempre al Museo della Città: il Salvatore, come un eroe classico lascia scivolare sulla pietra (toccata e consacrata dalla sua mano) sangue ed acqua, sgorganti – così insegna il Vangelo – o dalla ferita del costato. Non si tratta di una narrazione tratta dai vangeli ma di un immagine cristologica dell’“Uomo dei dolori” profetizzata da Isaia e dai Salmi. Gli Angeli mentre accolgono con delicata sobrietà il “corpo di Cristo” piagato, celebrano la liturgia eucaristica celeste; la morte offre già la grazia dell’alimento di resurrezione, perché negli Inferi è già Pasqua. La tavola realizzata tra il 1465 e il 1475 s’ispira nelle forme ai bassorilievi e alle pitture greco-romane ma nel contenuto alle icone bizantine, diffusissime nella Venezia del Giambellino. Di contro, i suoi dipinti diventeranno, a dir così, delle icone occidentali, continuamente copiate dai maestri rinascimentali. Tra questi Benedetto Coda, nato forse a Treviso, messosi a bottega dal Bellini nella Serenissima e poi emigrato in Emilia-Romagna (Ferrara prima, Rimini poi) s’ispira spesso alla Pietàriminese del maestro per realizzare le sue versioni del Lamento sul Cristo morto (fig. 3). La più bella, del 1514 circa, è stata recentemente acquistata (come già il polittico di Giuliano) dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini ed è esposta al pubblico nella sede di Palazzo Buonadrata. Coda elimina qui gli Angeli e mostra piuttosto quattro discepoli: Nicodemo (con gli strumenti utilizzati per deporre il Redentore), Giovanni, la Maddalena col vasetto d’unguento, l’anziano dignitario Giuseppe di Arimatea. Manca la Madre di Dio.
Il fondo scuro del dipinto, continuando la scelta di astrazione metafisica del Bellini, suggerisce in Coda l’oscurità della tomba, mentre la pittura si fa soffusa e sospirante, quasi a tradurre in un canto lieve l’unzione necessaria delle lacrime. Se i personaggi sono chiamati a compiere un rito insieme funebre e sacerdotale, in quanto amici vicini a Gesù e discepoli iniziati al suo mistero di morte e resurrezione, il fedele e il conoscitore d’arte (due categorie non disgiungibili al tempo) possono condividerne i sentimenti di pietà, partecipando al dramma divino e alle sue risonanze sacramentali e abbandonandosi a una commozione trasfigurata dalla bellezza.
Alessandro Giovanardi