Una famiglia come tante. La moglie mi riceve in casa offrendomi il caffè e invitandomi a sedere in soggiorno. Il figlio 18enne è fuori per uno stage. L’altra figlia che vive in casa, 21enne, corre dietro al suo bambino di due anni e mezzo. Il padre la guarda e, scherzando, le dice, “se ascoltavi me e pensavi alla scuola invece di correre dietro all’amore, a quest’ora il sabato sera lo passeresti in discoteca invece che a badarlo”. Lei sorride e risponde, “ma se fosse così, non avremmo questa meraviglia con noi”, e bacia il suo piccolo. Come tante famiglie, nonostante la povertà, festeggiano il Natale con una teglia di lasagne e il tacchino al forno, provando a riunire anche gli altri cinque figli sparsi in varie città d’Italia, anche se è sempre più difficile raggiungere tutti. La famiglia di Latif e Rita Ahmetovic è di etnia rom. Zingari. Vivono a San Salvatore da 12 anni in una casa concessagli dal Comune di Rimini dopo lo smantellamento del campo di via Portogallo. Lo faranno fino ai primi di aprile quando saranno costretti a lasciarla perché il Comune rivuole la sua proprietà. A oggi l’unica alternativa per loro resta la strada. Quella strada che già conoscono, ma alla quale non sono pronti i figli che fino a questo momento hanno vissuto sotto un tetto.
“Siamo disperati”, Latif parla disarmato dal suo umile soggiorno arredato con pochi e vecchi elementi: uno scaffale, un tavolino e la televisione. L’unica nota di colore è data dai tessuti etnici che ricoprono il divano. Il disimpegno collega la cucina e le due camere da letto in cui dormono in cinque. “Abbiamo cresciuto i nostri figli in questa casa e proprio adesso che non ho più un lavoro e abbiamo un nipotino dobbiamo lasciarla”. Incalza Rita, “questi anni sono stati una fortuna. Abbiamo potuto conoscere gli abitanti di San Salvatore e tutti sanno che siamo brava gente: mai avuto problemi con la legge”. Quello del sottolineare la propria distanza dallo stereotipo dello zingaro-ladruncolo sembra un riflesso automatico. Come biasimarli? Viviamo in tempi in cui con troppa leggerezza si passa dalle boutade sulle etnie al razzismo vero e proprio, spesso sotto l’egida di certa (anti)politica. “Quando si vive nei campi rom, se c’è qualcuno che ruba, la colpa ricade su tutti quanti, anche sugli onesti”, spiega Rita così la nascita del cliché, “eravamo 23 famiglie ammassate. Per gli italiani eravamo tutti uguali. È brutto vivere così”.
La civiltà comincia con l’indirizzo civico. “Se ognuno ha la propria casa allora è responsabile della propria famiglia”, prosegue la donna, “è così che San Salvatore ci ha conosciuto e apprezzato. La casa e la vita di quartiere sono stati una benedizione, perché abbiamo potuto insegnare ai nostri figli a rispettare le persone. Ora l’idea di portarli in una roulotte, in un campo…” sarebbe uno scenario che non vogliono nemmeno immaginare. “Speriamo nel Comune, che ringraziamo, che ci aiuti a trovare un posticino, anche piccolo, dove poter stare. “Basta non tornare sulla strada”, chiosa secco e terrorizzato Latif che ripete questo mantra durante tutta l’intervista.
Cos’ha di tanto negativo il campo? I rom si riuniscono in baracche per scelta o per costrizione? Il lavoro nobilita l’uomo, e “senza lavoro non si hanno alternative e si finisce nei campi”, spiega, “ma quella è una vita da animali. Siamo stati dieci anni in quello di Rimini. Ci sono seri problemi di igiene, non si possono crescere i figli a quel modo. E poi tra rom si litiga molto”.
Accuse reciproche, invidia. “Ognuno pensa per sé, non siamo una comunità unita, infatti non ci capita spesso di sentire le altre famiglie. C’è chi è geloso del fatto che in questi anni il Comune ci ha dato una casa”.
Gli faccio notare che di questi tempi ci sono molti italiani che esprimono la stessa invidia, forse non del tutto consapevoli del marciume in cui i nomadi sarebbero altrimenti costretti a vivere; un marciume frutto del circolo vizioso di questa non-integrazione italica secondo la quale esiste un noi e un loro, in cui noi non ci fidiamo a dargli un lavoro e loro si emarginano sempre di più: miccia ideale per condotte criminali. “Gli italiani vedono che abbiamo lavorato duro per toglierci dalla strada, non ci sentiamo invidiati da loro”, ne è certo Latif che indica degli amici solo fra gli italiani. “A noi interessa la cultura e la tradizione italiana, vogliamo essere inseriti attraverso il lavoro”.
Già, il lavoro. E chi lo vede? “Quando ci presentiamo ad un colloquio, basta che vedono il cognome da zingaro e dicono ti faremo sapere”, raccontano padre e figlia, entrambi ci hanno provato più volte. “Gli italiani dovrebbero avere più fiducia nel popolo rom, metterci alla prova assumendoci. E invece i troppi pregiudizi non fanno vedere la persona che c’è dietro”. Il capo famiglia ha lavorato per dodici anni come netturbino autista, svuotava i bidoni. Ha la patente A, B e C e parla quattro lingue. Dall’anno scorso è disoccupato e racimola qualche soldo grazie al suo camioncino col quale trasporta materiali di scarto e aiuta amici a fare traslochi. Per l’estate spera in un lavoro stagionale. La moglie ha smesso di chiedere l’elemosino quando hanno abbandonato il campo rom. Lo faceva fuori dall’ospedale e in centro, “in una mattinata prendevo anche 15mila lire. Oggi faticano a prendere 50 centesimi”, dice.
Latif è in Italia da quand’era bambino. È venuto a Rimini con la famiglia 25 anni fa dopo aver conosciuto don Oreste Benzi che gli ha cambiato la vita, “era un padre per noi, mi ha battezzato”, ricorda, “abbiamo trovato un tesoro qui a Rimini, tanti amici nella Papa Giovanni XXIII che credono in noi”. Un’integrazione che si è fatta materia col portare i figli a scuola, “alla mattina potevamo conoscere i genitori, e i nostri figli sono diventati amici. Non tutti hanno la fortuna di essere accolti come noi, perché la gente giudica subito. Ci vuole del tempo per farsi conoscere” e le giuste occasioni, come, appunto, la scuola, la vita di vicinato e il lavoro.
Ronaldo, la piccola e dolcissima peste, non ha freni. Scatta da una parte all’altra della stanza, si tuffa dal grembo materno a quello della nonna in cerca di coccole. Ogni tanto mi raggiunge, mi guarda con i suoi occhioni scuri che sorridono ancor prima delle labbra e mi dà la mano, “piacere”, ha imparato dai nonni a tendere la mano all’ospite sconosciuto: gesto primario di qualsiasi rapporto di civiltà. Un sorriso e via che torna a dare calci all’aria come se avesse un pallone ai piedi… e il nome promette bene. “L’unica cosa che mi interessa”, dice Vanessa, la giovane mamma, “è che mio figlio cresca bene e in un ambiente sano”. Al bambino parlano sia in italiano che nella lingua rom (il romanes), o lo “zingaro”, come lo chiamano loro. Gliela insegnano perché, dice la nonna, “la lingua della madre non si scorda mai”.
Mirco Paganelli