Lo Stato islamico è arrivato a conquistato Sirte e si sta muovendo verso Misurata. Per quanto temuto, questo sviluppo della crisi libica era ampiamente prevedibile. Se nel 2011 Sarkozy e Cameron avessero tenuto conto degli insegnamenti della storia, si sarebbero accorti che un intervento militare contro il regime di Gheddafi avrebbe portato ad un guerra civile, con tante vittime e a una prolungata instabilità nel Paese. Si decise d’ignorare tutto. Sarkozy tentava di rilanciare la propria immagine di leader decisionista, con la volontà di controbilanciare il peso della Germania sulla scena europea e quello di sottrarre all’influenza dell’Italia i giacimenti libici di petrolio e gas. Questo esercizio di politica dal sapore neocoloniale, concretizzatosi in una guerra contro Gheddafi, senza il minimo progetto di ricostruzione di un sistema statale stabile, efficiente e possibilmente democratico, ha permesso di trasformare la Libia in una sorta di Somalia mediterranea. Ormai da tre anni davanti alle coste della Sicilia si trova un territorio in cui le istituzioni statali sono sfaldate, in cui si combattono molte fazioni armate. In queste condizioni, era evidente che se si fosse materializzato un attore politico-militare più potente e determinato, avrebbe potuto tentare di colmare il vuoto creatosi. Come abbiamo dolorosamente appreso nell’ultimo anno, adesso quell’attore esiste, è ben armato, ha un progetto di espansione che va da Casablanca all’Iran e utilizza una combinazione di guerriglia e terrorismo, di tattiche antiche e di strumenti tecnologici. Fin qui, ciò che sappiamo. Ciò che non sappiamo invece è come gli Stati europei abbiano intenzione di rispondere a questa sfida. Purtroppo, però, sembrano aver perso la capacità di pensare in termini più puramente politici e di sicurezza internazionale. Al massimo, qualche Stato sa sparare, ma salta agli occhi un’incapacità generale di calibrare le azioni e soprattutto di elaborare piani che abbiano un respiro politico. La lunga inerzia sulla crisi ucraina ne è testimonianza. Radicati nel benessere e lontani dalle periferie del mondo, dove imperversano violenza e povertà, molti europei presi dai problemi del proprio portafogli non hanno voglia di guardare cosa li circonda, ma può arrivare un momento – diceva Trotsky – in cui è la guerra a occuparsi di noi. Ora, certamente l’Isis è un nemico dichiarato di tutto l’Occidente, ma prima di lanciarsi in un eventuale intervento in Libia, è indispensabile pensare bene chi dovrebbe farlo, a cosa dovrebbe servire, come realizzarlo. Si tratterebbe di guerra vera e non durerebbe poco. E a quale prezzo? È bene riflettere in modo accurato quali siano le vie giuste da percorrere.
Stefano Costalli