I “grandi occhi” son quelli dei bambini tristi di Margaret Ulbrich, sposata Keane, i cui dipinti fecero impazzire l’America negli anni ’60 con una grande operazione di marketing (popolarissimi pure poster e cartoline delle celebri illustrazioni). Ma l’America non sapeva che la vera autrice dei quadri era lei, poiché il marito Walter si era impossessato della sua arte spacciandola per propria. La remissiva Margaret (tuttora in vita e in attività) fu costretta a sottostare a Walter fino al giorno in cui decise di affrontare il consorte in tribunale per una causa di risarcimento miliardaria. Progetto a lungo tenuto nel cassetto da Tim Burton che indica nelle pitture di “Keane” una delle sue fonti di ispirazione sin da bambino. Colpito da quei grandi occhioni (cifra stilistica di molti suoi personaggi) il regista si cimenta in questa intrigante storia di verità e bugie, con una donna di talento ed un marito “vampiro” che risucchia arte ed anima per raggiungere una gloria che non gli appartiene. Del resto Margaret (la notevole Amy Adams) è una vera creatura “burtoniana”, lei così “diversa” per essere donna e artista, due condizioni che mal s’integravano con la società al maschile USA anni ’60. A prima vista qualcuno può additare al film una minore ispirazione e un senso visionario ridotto al minimo, in un film “intimista” con i suoi punti deboli nella parte processuale e nella recitazione smodata del doppio premio Oscar Christoph Waltz nel ruolo di Walter. A guardare dietro alle tele e specchiandosi nei profondi e tristi occhioni dei bambini, veri e propri “specchi dell’anima”, emergono aspetti di interesse sul vero e sul falso, sulla libertà e sulla costrizione, sul talento e sulla mediocrità che rendono Big Eyes opera più profonda di quanto si possa credere alla prima visione.
Il Cinecittà di Paolo Pagliarani