Riscoprire come la chiesa di San Francesco si trasformò in un Tempio per volere di Sigismondo Pandolfo Malatesta circa nella seconda metà del quattrocento, comprendere il pensiero filosofico, nonché culturale che animò Leon Battista Alberti. Questi sono solo due degli aspetti fondamentali per recuperare in una prospettiva architettonica e artistica l’essenza originaria dell’incompiuto malatestiano, oggi sede vescovile nel riminese. È quanto emerso nell’incontro “Un tempio rinnovato, per un cristianesimo rinnovato”, seconda tappa del ciclo di incontri dal titolo “L’umanesimo cristiano nel Tempio Malatestiano. Percorsi di riscoperta artistica, teologica e sapienziali”. Relatore della seconda puntata è Pier Giorgio Pasini, massimo studioso e conoscitore delle vicende figurative e culturali che riguardano la Romagna e Rimini, nonché autore, tra le altre, della monografia Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico (Skirà, 2000).
“Il tempio è come una possente sintesi di due linguaggi: quello classico e quello cristiano – ha detto introducendo la serata Alessandro Giovanardi, Storico e critico d’arte, responsabile dell’Ufficio cultura della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini e docente di iconologia a iconografia cristiane presso l’ISSR “A. Marvelli” di Rimini – . Questo grande incompiuto è non facile da interpretare, ma non è un luogo di dèi e di demoni. Il tentativo di questo ciclo di incontri è quello di dare un cuore pulsante e integro, che non faccia perdere l’integrità di questo monumento”.
Fondamentale nello studio del Tempio Malatestiano secondo una prospettiva architettonica, focalizzarsi sull’intervento dell’Alberti, come Pasini ha magistralmente effettuato durante la sua lezione. E per compiere ciò, è necessario recuperare qualche data, leggere qualche opera dell’umanista e da ultimo ammirare la magnificenza di quest’edificio.
1447, inizio della costruzione di due cappelle gentilizie sul fianco destro della chiesa di San Francesco, una per San Sigismondo, l’altra per Isotta degli Atti. Questo il progetto originario di Sigismondo, destinato a mutare rapidamente rotta. Sigismondo è stato fortunato, ha vinto nelle guerre italiche e vuole fare un voto. A questo punto entra in gioco l’Alberti. Il compito è arduo: rendere solido l’edificio e costruire qualcosa che rimanga presso i posteri. Ci vuole riflessione e studio perché “un tempio bene curato e ornato rappresenta indubbiamente il vanto maggiore e più nobile che possa avere una città”, scrive l’Alberti nel De re aedificatoria. Il mecenate ha chiarito il suo obiettivo. E l’umanista lo supporta con la sue abilità e conoscenze. Ritornare alle forme antiche della tradizione greca e romana, conferire filosofica saggezza alle pareti e all’edificio, rivestire l’edificio di marmi ed evitare gli affreschi. Così si tenta di compiere l’immane fatica e di costruire un luogo degno di Dio. Non dunque un Tempio pagano, ma la Chiesa dei Signori e della sua corte. E il Tempio è rinnovato.
Sara Castellani