Se appoggiamo una conchiglia all’orecchio, oggi, potremmo ancora sentire il rumore del mare? Siamo ancora capaci di ascoltare, di guardare il mondo e di emozionarci? Oppure il creato, e così anche l’arte, rimanda solo un’unica immagine: la nostra? È una riflessione “vertiginosa”, perché tocca le corde più profonde dell’animo umano, quella che nasce dalla visita alla mostra ’Di Terra e di Luce’ in corso a Castel Sismondo di Rimini fino all’8 dicembre, un evento che raccoglie, per la prima volta insieme, le opere di Americo Mazzotta, fiorentino, pittore e disegnatore, e Paola Ceccarelli, riminese, scultrice.
Due personalità che vivono il rapporto con il proprio fare arte con la consapevolezza di essere strumenti alla ricerca di un senso intimo e profondo delle cose, capaci di farsi domande universali, comuni a tutti gli uomini e le donne che si interrogano sul proprio destino. Un’esposizione capace di attirare, grazie al passaparola, oltre 4500 visitatori in poco più di due mesi – che sono uscite dalla visita emozionate, coinvolte. Sulla scia di questa “fecondità” anche inattesa, dalla mostra sono nate diverse iniziative collaterali fra cui un incontro dedicato proprio al ruolo che l’arte gioca nella contemporaneità. Nel Salone di Palazzo Buonadrata, a dialogare con i due artisti, è stato il critico Alessandro Giovanardi, che è partito dal San Giacomo in Gloria di Simone Cantarini, discepolo di Guido Reni (opera esposta nel Museo della Città di Rimini), per accompagnare il pubblico in una riflessione che ha messo al centro il ruolo dell’arte come “rivelatrice di sguardi sacri, portatrice di un otium contemplativo, di una pace” che oggi sembra cacciata via dalla vita e da un’arte contemporanea diventata autistica, incapace di puntare lo sguardo all’orizzonte, ma solo al proprio ombelico. Dopo un rapido excursus storico-artistico, Giovanardi ha passato in rassegna le diverse collaborazioni “sacre”, per chiese e architetture cristiane, di Americo e Paola (come il monumento funebre in S. Agostino, disegnato da lui e realizzato da lei), per giungere poi alle opere in mostra: le sanguigne di Mazzotta, in particolare, dedicate all’Odissea, dove l’Ulisse di Omero che giunge a Itaca e si vendica, lascia spazio all’Ulisse di Dante, che riprende il viaggio per spostarsi là dove gli Dei non concedono di andare, oltrepassando il limite e “peccando” quindi di ubris, un affronto al divino nel quale il poeta fiorentino ha intravisto la grandezza dell’uomo. Un movimento verso un oltre a cui fa da contraltare l’attesa delle donne-conchiglia di Paola, nate dalle mani dell’artista che, dopo aver osservato il moto delle onde sulla rena, lo ha riprodotto con le sue mani nella modellazione della creta: “Un immaginario scultoreo che si rifà all’Annunciazione a Maria: donne che aspettano la luce, che l’infinito si faccia finito”. Un’attesa che, conclude Giovanardi, .“è propensione alla quiete, alla contemplazione, alla capacità di stupirsi”.. La scultrice, interpellata sul suo rapporto con l’arte, ha detto di non essersi mai interessata del destino dell’arte, ma di aver sempre e solo cercato una verità: .“L’arte per me è una grande occasione di incontro con l’alterità; quando guardo un’opera mi domando cosa rappresenti per me. C’è l’arte che vuole provocare o gridare un disagio. Per me essa ha significato ripartire dallo stupore della presenza di una realtà, con il desiderio di comunicare senza la pretesa di dare delle definizioni”.. Americo Mazzotta, giunto alla fede proprio attraverso l’incontro con un sacerdote che voleva abbellire la propria chiesa, ha affermato che il vero committente di un’opera d’arte è sempre lo Spirito Santo: .“C’è il desiderio di un parroco, di un vescovo, di un popolo, di migliorare un luogo di culto. Ma è lo Spirito che muove ogni cosa e che mi ha portato fino a qui”.. Fare arte: lasciarsi ispirare, farsi strumenti, abbassare se stessi per consegnare al pubblico opere che, a chi vuole ascoltare, hanno tanto da dire.
Mario Gabriele Tedeschi