Smartphone a scuola, un problema con cui oggi devono misurarsi i docenti, fin dalle scuole primarie. Proprio così: “I genitori si tolgono il pane di bocca pur di comprarli ai loro bambini. In quarta c’è chi gira con l’iPad ricevuto per la Comunione” ci racconta un’insegnante di un istituto riminese. Chi oggi frequenta la prima elementare striscia le dita sui display interattivi da prima dell’asilo. Sono i nativi digitali, quelli cresciuti sotto l’astro del Mi piace. La legge da anni è chiara. L’utilizzo del cellulare in classe è vietato: deve rimanere spento nello zaino. Ogni istituto, poi, può adottare codici disciplinari diversi per punire gli allievi fuorilegge. I nuovi palmari con accesso ad internet consentono gli usi più svariati. Tra i più grandicelli c’è chi preferisce, alla lezione su Plauto, scattare foto, girare video, navigare sui social network, postare commenti offensivi su siti come Ask.fm… il tutto di soppiatto. Ci sono persino gruppi di classe su Whatsapp dove un compagno svolge l’esercizio per tutti, lo fotografa e lo invia agli altri. Facendo un giro tra le scuole ne abbiamo desunto un quadro complesso. La tecnologia è solo nemica della didattica? Tanti i ’no’ quanti i ’ma’.
Genitori ossessivi. Gli studenti delle medie sono quelli più vulnerabili. Una volta tolti i grembiuli, a cavallo tra infanzia e adolescenza, il desiderio di distinguersi è forte; si è soggetti alle mode e sempre più svincolati dallo sguardo adulto. Alla scuola media “F.lli Cervi” di Riccione, come in qualsiasi altro istituto, la punizione per chi usa il telefono in classe coincide con il ritiro e la sua riconsegna nelle mani del genitore.
“I recidivi sono sempre gli stessi”, afferma il referente Mauro Sanpaolesi. Per loro, ulteriori sanzioni come la sospensione. “Mediamente ritiriamo 3 o 4 smartphone a settimana – rivela un docente della scuola media “Panzini” di Bellaria -. Saltano fuori soprattutto nel cambio dell’ora quando l’attenzione degli insegnanti viene meno”.
Chi è andato a scuola in tempi (nemmeno troppo) preistorici si domanda: cosa lo portano a fare a scuola? “I genitori si sentono così più tranquilli – prosegue il docente, con riserve -. Li avvertiamo che i figli sono al sicuro a scuola e che in caso di malore sarebbero tempestivamente avvisati. Eppure non si convincono”. A preoccupare è il tragitto casa-scuola, “con quello che si sente dire in giro…”. Eppure, l’Italia ha un numero di stupri tra i più bassi al mondo e di incidenti stradali in forte diminuzione. Avrà più colpa la TV sensazionalista o l’adulto facilmente suggestionabile?
Scene pietose. Ragazzi disperati piangono di fronte al preside all’atto di confisca. A queste scenate assistono abitualmente i dirigenti di più scuole superiori. “Ne sono dipendenti – afferma il vicario del Liceo scientifico “Einstein” Marco Dall’Agata -. Gli smartphone sono come delle protesi delle loro mani. Il sequestro porta ad una destabilizzazione che può scatenare persino aggressività. Soprattutto nelle classi più giovani, sia perché li utilizzano da più tempo, sia perché hanno più timore delle conseguenze in famiglia”. Anche per i liceali “la presenza del cellulare a scuola è del tutto irrilevante: i ragazzi sono perfettamente raggiungibili tramite il centralino”.
Educare allo smartphone. C’è chi non si limita all’aspetto sanzionatorio della legge, ma riscopre il ruolo educativo della scuola. L’Istituto Tecnico “Valturio”, guidato dalla Prof.ssa Daniela Massimiliani, prova ad affrontare il problema ’dipendenza’ dalla radice. Fa notare come i ragazzi non indossano più gli orologi; segno che l’ora la guardano sul display del telefonino, anche a scuola. Con video o foto, lesivi o no, al Valturio scatta la sanzione. L’anno scorso è stata intercettata la foto di un compito che voleva essere copiato. “Sono convinta che durante la lezione facciano di tutto per tenere acceso il telefono senza essere visti. E al pomeriggio, se proprio devono passarsi i compiti svolti con Whatsapp – provoca la dirigente -, tanto vale che vadano a farsi un giro al parco”.
A sequestro avvenuto – afferma -, si ha come la sensazione che venga tolta loro una dose di droga. “La punizione non basta. Bisogna affrontare la questione da un punto di vista educativo, a partire dalle prime classi”. Gli studenti partecipano a un corso di prevenzione dal rischio dipendenza. In previsione: interventi di psicoterapeuti, polizia postale e dibattiti in classe. Persino i genitori saranno coinvolti per far conoscere loro i rischi e spiegare come intervenire.
Gli adulti non sanno. Nemmeno i docenti della scuola media “Marvelli” sono rimasti con le mani in mano. Dalle classi seconde tutti hanno lo smartphone. In programma, corsi di approfondimento per studenti e genitori, anche se ancora sono pochi gli adulti a rispondere all’appello. Poi ci sono gli interventi puntuali: dopo un episodio isolato di un video girato a scuola, un insegnante ha preparato un percorso educativo per i ragazzi coinvolti. L’ufficio di vicepresidenza della Prof.ssa Roberta Palazzi è diventato un consultorio. “A questa età hanno ancora bisogno del supporto dell’adulto e ci raccontano episodi della loro vita che esulano dal momento della didattica. Ci dicono cosa fanno sui social network; la maggior parte delle loro relazioni sociali passa da questa modalità”. Se in classe sono tutti disciplinati, a preoccupare è il lungo tragitto in autobus verso casa che, per alcuni, significa 40 minuti di totale libertà sul web senza essere controllati. “Molti genitori non sono a conoscenza di cosa fanno i figli col telefono. Se proprio vogliono darglielo, consigliamo sempre di comprarne uno semplice senza internet”. I genitori vogliono sentirsi più al sicuro, eppure paradossalmente espongono i figli a rischi maggiori con uno smartphone, dall’ostacolo all’apprendimento al rischio per i figli di cadere nella rete di malintenzionati, come pedofili.
Mirco Paganelli