Non c’è mai nulla di prevedibile o di “maniera” nelle raccolte poetiche di Gianni Fucci. Anche questi Fugh e fiàmbi con il sottotitolo Magàra la còulpa l’è enca la nòsta, teatrale e ironico, appena usciti nell’elegante veste editoriale di casa Pazzini per la collana “Voci nell’ombra” (giunta così al trentanovesimo titolo!) confermano ciò che è attestato oramai dalla critica più attrezzata (e dal numeroso pubblico dei suoi lettori): una straordinaria capacità dell’autore 86enne (l’ultimo vivente degli intellettuali santarcangiolesi de “E circal de giudizei”, con Rina Macrelli, Tonino Guerra, Nino Pedretti, Raffaello Baldini, un’intensa carriera poetica) di dotare il dialetto santarcangelese en poète di una tastiera linguistica ricchissima, effetto di un corpo a corpo tra lingua italiana (un italiano prezioso, letterario) e il dialetto, intessuta di toni alti e bassi, ironici e allegri, malinconici e colloquiali, mai scontati che danno conto, anche in questo caso e soprattutto in questo, di una facilità di canto simpatetico, che ha poche analogie nella poesa italiana in lingua e in dialetto del secondo ’900 come in questo avvio di millennio. Che lo assomigliano, con esiti e procedure ovviamente diversi ad un Albino Pierro e ad un Zanzotto.
È ciò che coglie appunto nella sua efficace e puntuale presentazione alla raccolta, Giuseppe Bellosi, quando osserva che il “popolare” del dialetto di Fucci “(…) invece di essere espressione della propria realtà antropologica, è diventatato il punto di partenza per la costruzione di una lingua poetica strettamente individuale e raffinatissima, che è costituita da una equilibrata combinazione di dialetto parlato e di forme letterarie” (pagina 10).
In questa raccolta (Magàra la còulpa l’è enca la nòsta, poesie in dialetto santarcangiolese, presentazione di Giuseppe Bellosi e consulenza scientifica di Davide Pioggia, Pazzini Editore, Villa Verucchio 2014, 12 euro), Gianni Fucci si concede più che in altre al piacere del poesia nella forma appunto del cantabile e nel genere della suite; l’analogia con il genere musicale è tutt’altro che occasionale. Gli stessi titoli apposti alle sei sezioni in cui è partita la raccolta, il primo dei quali intesta l’intera silloge non sono, per così dire, tematici. Alludono piuttosto al vario disporsi della lingua poetica.
Alla prima sezione (Fugh e Flàmbi, Fuoco e Fiamme) i cui testi tematizzano, in assoluta leggerezza, il sentimento di spaesamento che abita il nostro tempo di fronte alle macerie della storia (si leggano per esempio il bellissimo, stralunato Millennium e il Sonetto stravagante (con coda) in quartine e terzine di concitati endecasillabi rimanti) seguono i Pansir vaiéun(Pensieri vaganti), Te fugh dal delusiòn (Nel fuoco delle delusioni), Fule (Favoleggiare), Racunté (Raccontare), Guardè adlà (Guardare oltre).
La disposizione è quella del colloquio, dove senza soluzione di continuità, e con la richiesta (nel sottotesto) di complicità del lettore, il poeta introduce negli interstizi dell’anima o in quelli dove si inscena fisicamente la quotidianità della vita, a quella commedia umana insomma dove <+cors>tout se tient<+testo_band>, dove ci sta dentro tutto, il bene e il male, il tempo che passa e la vita che si rinnova nel fiore della rosa o nei <+cors>“sunòi dla fantasia”<+testo_band>, il silenzio e la parola che osa l’impossibile allorché cerca di dare un senso alle cose, nominadole, una per una, con cura, a volte con rabbia, altre volte concedendosi al gioco del non senso, ma sempre con affetto e tenerezza.
Ennio Grassi