Cinque aziende su otto, in Italia, chiedono prestiti per pagare le tasse. Il dato, emerso da un sondaggio del Centro Studi di Unimpresa su 122mila imprese associate, riflette bene l’agonia con cui sono costrette a convivere migliaia di attività, tanto più in tempi di crisi. Per non parlare di quelle imprese che di fronte alle scadenze del fisco non riescono nemmeno più a sopravvivere, perché di troppe tasse si può anche morire. Lo conferma un dato, emerso da uno studio della Fondazione dei Dottori commercialisti ed esperti contabili di Rimini, sui bilanci di capitale delle imprese riminesi: in tasse se ne va addirittura il 107% degli utili. Come è possibile? Se poi questa è la situazione delle imprese più strutturate, è facile immaginare quanto sia ancora più drammatica per le attività più piccole.
La redazione di TRE – TuttoRiminiEconomia lo ha chiesto al Presidente della Fondazione, il Prof. Giuseppe Savioli. Anticipiamo in questa pagina l’intervista in uscita sul numero di settembre del mensile che torna in edicola e agli abbonati con il Ponte della prossima settimana.
“Nel triennio 2010-2012, secondo quanto emerge nel nostro studio – afferma a TRE Savioli – si è verificato un progressivo aumento dell’incidenza della pressione fiscale sui redditi d’impresa: dal 66% del 2010, essa è arrivata a pesare per il 107%. Una pressione inconcepibile, irrazionale: al fisco l’imprenditore deve dare tutto il guadagno e anche parte del capitale iniziale”.
Perché si è verificato questo aumento?
“Per effetto della crisi economica. Esiste un balzello, l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive), che si paga non solo sull’utile d’impresa ma anche sui costi aziendali, in particolare costo del lavoro e oneri finanziari. L’applicazione di questa imposta paradossale, fa sì che l’imprenditore debba pagare in base ai costi, anche se l’utile è negativo. Così le imprese già in perdita, finiscono per raddoppiare il deficit. E l’imprenditore (ma vale anche per il singolo professionista) ha meno denaro da investire in progetti di sviluppo”.
Secondo lei, il governo Renzi sta facendo qualcosa per migliorare questa situazione?
“Al momento non vedo spiragli, né di carattere congiunturale né a livello fiscale. Gli unici timidi segnali sono l’abbassamento dell’aliquota Irap dal 3,9 al 3,5%, in realtà molto modesto, e un piccolo aumento dell’Ace, il bonus sugli investimenti introdotto con la manovra Monti. Non c’è altro. Il nostro bilancio statale è rigidissimo, per cui non è possibile abbassare le imposte se non si taglia la spesa. Senza un’azione strategica a monte e senza un taglio della spesa improduttiva (il Pil è composto per oltre il 50% dalla spesa dell’amministrazione pubblica), il nostro Paese non riuscirà mai ad essere competitivo. A livello di pressione fiscale, l’Italia è tra i primi in Europa insieme a quattro-cinque paesi scandinavi, ma là per le tasse che vengono pagate, esistono servizi che noi nemmeno immaginiamo”.
Il Federalismo fiscale non ha portato alcun vantaggio alle imprese e ai cittadini?
“No. Ha solo aumentato la pressione complessiva delegando parte della discrezionalità agli enti locali. Le spiego il motivo: nessun ente vuole tagliare la spesa pubblica perché ciò vorrebbe dire scontentare parte dell’elettorato. Se si ha la possibilità di non tagliarla andando a prendere i soldi dai cittadini, quindi aumentando le tasse (il cui effetto è meno visibile nell’immediato) il consenso sarà maggiore. L’obiettivo di ogni amministratore alla fine è quello di essere rieletto, scaricando i problemi della spesa pubblica all’amministratore successivo”.
Un altro problema riguarda le ingiustizie e gli errori commessi dal Fisco ai danni delle imprese.
“Confermo: si tratta di pasticci notevoli che rischiano di far cessare le nostre imprese. Le porto solo un esempio: se il Fisco fa un accertamento per un abbaglio, ha l’obbligo di prendersi un terzo dell’accertato, anche se poi si dimostrerà che ha sbagliato. Il Fisco ha un potere molto rilevante nei confronti dell’imprenditore. Inoltre, gli adempimenti di carattere fiscale e tributario sono molto onerosi. Assistiamo ad una proliferazione di imposte e scadenze per cui anche l’imprenditore in buona volontà si muove continuamente nella paura di sbagliare qualcosa, ricorrendo così alla consulenza di professionisti. Che costa”.
Alessandra Leardini