Per interrogarsi sul teatro Claudio Morganti (nella foto) ha scelto la figura del poeta tedesco Jacob Lenz. Un’eccellente intuizione, tanto più che la tormentata parabola esistenziale dello scrittore vissuto nella seconda metà del settecento e morto a soli quarantun anni è diventata, in seguito, soggetto di un celebre racconto di Georg Büchner, altro grande drammaturgo. Nato con la collaborazione di Rita Frongia,Mit Lenz è uno spettacolo bellissimo che prende le mosse dalla consapevolezza – ne viene reso partecipe anche il pubblico – di operare una riflessione sul teatro. In poco tempo vengono restituiti i tratti umani di un artista attraversato dalla follia (in scena il bravo Antonio Perrone), mentre Morganti si cala nei panni del suo interlocutore, il pastore Oberlin – proprio come nel nucleo centrale del racconto di Büchner – per rendere il rovello interiore del protagonista attraverso illuminanti episodi biografici, scelti con intelligenza ed empatia.
A fronte di questa profonda consapevolezza teatrale, durante la quarantaquattresima edizione del Festival di Santarcangelo, si è vista un’intera generazione – non circoscritta a rigidi confini anagrafici – che rappresenta soprattutto se stessa e il proprio presente, dopo aver rinunciato (consapevolmente?) a confrontarsi con quel patrimonio comune sedimentato nel teatro, dai grandi classici – nati proprio per la scena – alle pagine letterarie, seppure concepite in origine con altri intenti. Ciò non esclude che in questo modo si possano ottenere notevoli risultati, spesso piacevoli a vedersi e veicolo d’intense emozioni: quasi tutte però destinate a risolversi nel presente. È il caso di Marten Spangberg, performer di Stoccolma che adesso ha convogliato i suoi interessi soprattutto sulla coreografia, teorizzandone la non indispensabilità: per lui la danza è un’idea ben più ampia, non riconducibile a una programmabilità di gesti. Nel suo gradevole Nature, oltre due ore di spettacolo in cui non succede quasi niente, lo spettatore può entrare e uscire liberamente, guardare o estraniarsi per i fatti propri. Robinson di MK, è invece una coreografia assai ben strutturata di Michele Di Stefano: un’ironica riflessione – scandita da un bel colpo di teatro finale – sull’isola di Robinson. Un Venerdì peloso e nero, ma solo nella parte superiore del corpo, si rapporta con le sue proiezioni degli occidentali: i ruoli vengono scompaginati (è una donna a portare l’iniziale V sul body) in modo spiritoso e l’azione non conosce mai un attimo di cedimento. Molto più di una semplice coreografia è Live Concert di Dewey Dell (ossia Agata, Demetrio e Teodora Castellucci, cui si è aggiunto Eugenio Resta): una sferzata di energia che si propaga con un ritmo incalzante, prendendo origine da percussioni elettroniche usate in modo ossessivo fino a riverberarsi in un flusso di continui loop fra i corpi dei quattro interpreti e gli strumenti.
Di tutt’altro segno e protesi alla ricerca di una memoria sempre più difficile da coltivare è Call Me X (sottotitolo Derive e approdi temporanei), una mostra fotografica e videoinstallazione dei Motus che documenta alcuni avvenimenti politici degli ultimi anni, con particolare attenzione alla tragedia dei migranti. Per il grande racconto collettivo Art you lost? ospitato in un luogo simbolico come la scuola elementare Pascucci si sono messi insieme Lacasadargilla, Muta Imago, i Santasangre e Matteo Angius: una grande opera d’arte pubblica dove parlano gli oggetti lasciati, durante la scorsa edizione del Festival, da oltre quattrocento persone che ne hanno dato anche una descrizione della loro storia.
Nonostante le cattive condizioni atmosferiche – molti dei venti spazi allestiti sono all’aperto – che hanno imperversato durante i dieci giorni del Festival, S •14 può vantare un bilancio positivo: le trentasei compagnie presenti, di cui un terzo straniere, sono state in grado di richiamare un pubblico ancor più numeroso dell’anno scorso, facendo lievitare gli incassi (8667 biglietti emessi) fino a quasi 42.700 euro. E in tempi di crisi non è un risultato da poco.
Giulia Vannoni