Il panorama politico-sociale del Settecento è ancora una volta pieno di ombre minacciose: scoppiata, dopo la morte di Carlo II, la guerra per la successione al trono di Spagna, il Riminese è di nuovo attraversato da eserciti nemici: per due volte in due anni le truppe dell’imperatore d’Austria passano il Marecchia: dapprima dirette contro il Regno di Napoli (1707), in seguito contro lo stesso papa, per “punirlo” della sua neutralità.
Tentando di impedire che le truppe si fermino in città, vengono costruiti dei ponti di legno sul Marecchia e sull’Ausa, con l’intenzione di abbatterli una volta che gli eserciti siano passati. Alla fine, però, ci si rassegna e i ponti vengono ricostruiti, in considerazione della impossibilità di impedire il transito lungo la via Flaminia, che anzi il Comune è costretto a restaurare fino a Loreto.
Ad aggravare la situazione si aggiungono il terremoto del 1703 e le ricorrenti alluvioni del Marecchia.
Dopo che nel 1713-14 le paci di Utrecht e di Rastadt riconoscono Filippo V re di Spagna (esattamente quello che la guerra aveva inteso evitare), nei pochi anni di quiete che seguono la città avvia tre cantieri: il restauro della fontana, la costruzione di un nuovo macello e la continuazione del muro che fiancheggia il porto canale.
L’imperizia o, più verosimilmente, la scarsezza dei mezzi, spesso fa sì che i lavori siano da rifare, come successe ai nuovi moli del porto, che in seguito all’alluvione del 1727 caddero perché “malamente costruiti”.
Nel 1735 la guerra tra la Francia (alleata allora con la Spagna) e l’Austria per la successione al trono di Polonia (1733-1738) viene combattuta in Italia e Rimini è di nuovo occupata da Spagnoli e Austriaci. Da Roma giungono ”ordini rigorosissimi, che nulla si desse a questi veramente incivili ospiti”, ma per evitare guai peggiori, sentito il cardinale Legato di Bologna, il Consiglio decide di predisporre un piano che stabilisca la quantità di foraggio, viveri e contribuzioni in denaro da versare alle “truppe alemanne”.
Poi è la volta della guerra di successione austriaca (1742-1748) e la tragedia si ripete: prima si devono ospitare truppe e generali spagnoli e addirittura organizzare balli e rappresentazioni teatrali per i graduati; dopo la fuga degli Spagnoli, accompagnata dalla distruzione di tutti i raccolti, sono gli Austriaci a dare il colpo di grazia.. Nemmeno l’intervento del cardinale legato Pompeo Aldrovandi riesce a ottenere un miglioramento della situazione.
Nonostante gli accordi, il territorio di San Clemente è messo a ferro e fuoco. Quando la città è ormai ridotta allo stremo, nel 1745 finalmente le truppe di entrambi i contendenti lasciano la Romagna e si dà l’avvio ad altri cantieri: si iniziano i lavori di costruzione della pescheria, viene rifatto il selciato della strada maggiore (corso d’Augusto) e restaurata la torre dell’orologio. Inoltre vengono stanziati fondi per la sistemazione del porto canale. A finanziare in parte queste opere è un contributo stabilito da Benedetto XIV (il bolognese card. Prospero Lambertini) a favore delle città che avevano dovuto sostenere i passaggi e l’occupazione delle truppe.
Nella prima metà del secolo la diocesi gode di due episcopati di notevole durata, quello di Giovanni Davia (1698-1726) e quello di Renato Massa (1726-1744).
Personaggio eclettico, il cardinale Davia fu vescovo della città per ventisette anni. Aveva studiato a Bologna diritto, matematica e astronomia e si era poi dedicato alla carriera diplomatica. Fu nunzio a Bruxelles, a Colonia, in Polonia e a Vienna dove nel 1701 dovette sostenere la non facile posizione di neutralità che il papa volle assumere, come si è visto, in occasione della contesa tra gli stati d’Europa in merito al problema della successione al trono di Spagna. Il suo episcopato, come quello del suo successore, è segnato da un forte ritorno di interesse per la riforma voluta dal concilio di Trento, e rivolge la sua premura nelle tre direzioni ormai “classiche”: migliorare la qualità dell’insegnamento per i futuri sacerdoti, intensificare le visite pastorali e celebrare i sinodi.
Ripresi i contatti con l’ambiente universitario di Bologna, Davia (nella foto) riesce a dotare il seminario di ottimi maestri: Palesi per la lingua latina e italiana, Leprotti per la filosofia, Stai per la lingua greca (per citarne solo alcuni). Anche se i seminaristi escono ugualmente per frequentare presso i gesuiti le lezioni di teologia morale e presso i domenicani quelle di teologia dogmatica, ormai il seminario può dirsi il terzo polo culturale della dicesi. Dopo che Benedetto XIII nel 1725 con la bolla Creditae nobis – oltre a istituire una congregazione adibita ai seminari e a imporre ai vescovi di istituirli e conservarli presso le sedi cattedrali – prevede la possibilità che siano accolti anche studenti che non aspirano al sacerdozio (naturalmente a fronte del pagamento di congrue rette), furono sempre più numerosi i figli dei nobili che scelsero di compiere i loro studi presso il seminario.
(11 – continua)
Cinzia Montevecchi