Una serata che non mi sarà difficile tenere a lungo nel cuore e nella mente. Lunedì 19 maggio, dalle 17 alle 19,30, insieme ai 250 vescovi italiani incontriamo papa Francesco nell’aula del Sinodo, in Vaticano. Il riquadro del mio ricordo non può che essere ristretto e soggettivo, benché – ne sono certo – rifletta memorie e sentimenti condivisi con tutta l’assemblea.
Francesco esordisce con un “pianissimo” alla Mahler: non ci rifila un richiamo di tipo dogmatico o teologico, né una complicata strategia pastorale, ma la proposta piana – penetrante, discreta – di andare all’essenziale, di un rinnovamento interiore, di una spiritualità abitabile. Il percorso tracciato da Francesco è rettilineo: tre punti e, per ognuno, un grappolo di domande, una lista di tentazioni, con annessa l’indicazione di risorse efficaci. Alla fine, la segnalazione di alcune frontiere “calde”. Provo a ripercorrerne a salti il tracciato: invitante e provocante.
Le domande. La prima: “Chiediamoci: chi è per me Gesù Cristo? Come ha segnato la verità della mia storia?”. Non è una domanda per bambini di prima Comunione. E’ “la” domanda che sfida ogni cristiano, e dunque anzitutto un pastore come me. Fin da queste prime battute mi sento un pastore preso per mano, mentre con l’altra mano Francesco tiene l’indice puntato non verso di sé, ma verso il Pastore dei pastori: “Teniamo fisso lo sguardo su di Lui”. Il servizio pastorale è tutta questione di sguardi: se smetto di guardare Lui, comincio ad affondare, come Pietro, nelle onde ribollenti del mare in burrasca.
Le tentazioni. Sono una “legione”. La declinazione è triste: tiepidezza, mediocrità, ricerca del quieto vivere, frettolosità pastorale, accidia, presunzione, eccessiva fiducia nelle risorse, nelle strutture, nelle strategie organizzative: è il “capitolo delle colpe” delle mancanze del pastore. La povertà di comunione costituisce lo scandalo più grave: “Nulla giustifica la divisione: meglio cedere, meglio rinunciare, piuttosto che lacerare la tunica e scandalizzare il popolo santo di Dio”.
Gli antidoti. Si riassumono in uno solo: l’eucaristia. Se la patologia più letale contro la comunione è l’ossessione del proprio io, la terapia più efficace non può che essere una vita eucaristica: “vivere decentrati rispetto a se stessi, protesi all’incontro”.
Le frontiere. Migranti, disoccupati, famiglie. Ma qui conviene andare direttamente alla fonte.
<+nero>I passaggi più forti?<+testo_band> Il primo: “Quanto è vuoto il cielo di chi è ossessionato da se stesso”. E ancora: “Verità e misericordia: non disgiungiamole. Mai!”.
E ora? Non ci resta – a me pastore e a tutto il nostro gregge – che tradurre il messaggio “francescano” in riminese.
Francesco di Rimini