Accendo l’Ipad sul comodino per controllare l’ora. Le 2.30. Un incubo. Dalle 22.30 va così: ogni ora guardo quanto tempo mi resta per dormire prima della levataccia per la Nove colli. Sveglia puntata sulle 3.40. Un’ora e dieci. Come faccio? Sono piuttosto disperato. Nella testa mi passano tanti pensieri e quasi tutti brutti, soprattutto tristi: staccare la sveglia e buona notte alla gran fondo. Dopo tutto ho la bici da corsa da due mesi e nove giorni e meno di 2mila km nelle gambe: comunque vada, sarà un disastro. Alle 3.30 decido di alzarmi. Colazione del campione con uova, prosciutto, formaggio e arance (a quell’ora quasi una violenza) e alle 4.15 sono in macchina.
L’arrivo. Arrivo a Cesenatico che non sono ancora le 5 ed è già una bolgia. Scendo dalla macchina e tremo dal freddo. E sbadiglio. Con gambe e braccia nude si battono i denti ma fa nulla. Pian piano sale l’adrenalina e si va in griglia, sul portocanale. Sono le 6, ormai il sole è alto nel cielo. Qua è tutto un selfie, un «passami la bomba». Io non mi «bombo», voglio arrivare e basta. Corta (da 130 km e 1.800 metri di dislivello) o lunga (208 e 3.800)? Sinceramente non l’ho ancora deciso. Il cuore, la passione e l’istinto tifano per la lunga. La testa mi ha già mandato a quel paese quando mi sono alzato senza avere dormito e argomenta che se faccio la lunga sono un idiota assoluto.
I gufi. Sul tavolo della colazione Roberta mi ha lasciato un biglietto con scritto “Ciao amore. Divertiti e cerca di non esagerare! La corta va benissimo!”. L’hanno terrorizzata in parecchi nei giorni scorsi: «fa la Nove colli? Ma è matto? Tu non sai quanta gente si è fatta male. È pericolosissima. Non si è allenato abbastanza. È un azzardo per lui».
L’elenco potrebbe continuare a lungo. Non ho ancora sciolto la riserva ma so già che farò la lunga. È un po’ come la «grande onda» di Un mercoledì da leoni. Va cavalcata e poi ci si ritira. Beh, insomma: per il ritiro aspetterei ancora un po’.
La partenza. Sono lei 6.30 e fanno avanzare la griglia gialla, la mia: siamo in 2.500 dei 12mila totali. Via! Alla terza pedalata siamo già quasi ai 40 all’ora. Sarà così fino a Forlimpopoli. Per la paura di cadere, faccio una fatica bestiale a stare a ruota di un gruppetto di ragazzi di Cesena e Forlì con cui comincio quest’avventura. Ci muoviamo come uno sciame gigantesco, ma in maniera assolutamente folle. L’obiettivo me lo spiegano: arrivare a Bertinoro e al Polenta (il primo colle dei nove) senza restare intruppati e dovere scendere dalla bici e proseguire a piedi. Quando arriviamo a Cesena veniamo raggiunti dai più veloci della griglia arancione, partiti quasi venti minuti dopo di noi. Ci sorpassano garantendosi un margine di sicurezza tra chi devono passare e il fosso al ciglio della strada di pochi centimetri. Roba da matti, ma funziona così. Questa follia collettiva cessa finalmente a Bertinoro, quando la strada comincia a salire. Ora ho deciso: farò di sicuro la lunga (salvo eventuali crolli sul Barbotto) per cui salgo agile, risparmiando la gamba. Stessa cosa sul Polenta, dove sul muro a 14% non sono costretto a scendere dalla bici, ma il traffico non consente di andare oltre ai 6 km/h. La follia torna a farla da padrone alla prima discesa, quella che porta a Pieve di Rivoschio, il secondo colle. In pochi chilometri, alcuni con pendenze veramente importanti, mi sorpassano centinaia e centinaia di persone. Eh sì, in discesa sono veramente una frana, di solito. Ma in discesa in mezzo a migliaia di ciclisti pronti a spaccarsi la testa pur di guadagnare qualche metro faccio veramente schifo. Ci metto 10 km a raggiungere il mio gruppetto e siamo ormai alla seconda salita. La conosco: è lunga ma pedalabile. Il cuore mi dice: massimo il 21, meglio se il 19. La testa, però, mi dice metti il 25 che dopo ne devi fare altre sette. Obbedisco. E arrivo in vetta piuttosto fresco, saltando persino il ristoro, preso d’assalto. La discesa che porta ai piedi della Ciola, il terzo colle, è ancora peggio. Si va giù tra i 50 e i 60 all’ora con distanze di sicurezza da mezzo metro. La Ciola quindici giorni fa mi aveva fatto dannare quindi salgo dandole del lei.
Ecco il Barbotto. <+testo_band>Poi giù verso Mercato Saraceno, e siamo ai piedi del Barbotto. Faccio l’errore di fermarmi a mangiare una barretta energetica dopo il sensore della cronoscalata (e infatti in serata mi arriverà il messaggio di un amico: “Ci hai messo 35minuti, avevi forato?”) e poi si parte. Quattro chilometri e mezzo con gli ultimi 500 al 18%, pendenza media 6.91. Azzardo: primi due tornanti col 23 e poi indurisco col 21. Tutto per tenermi il 25, più leggero, per l’ultimo tratto. Vengo su bello spedito, facendomi largo tra gente che resta sui pedali, paonazza in volto e con imminente rischio d’infarto. Qua di ciclisti che vanno a piedi se ne vedono già tanti ma non è colpa del traffico. La colpa è della salita e di quei 1500 metri di dislivello già guadagnati dopo quasi 90 km. Sul muro azzardo un’andatura un po’ spavalda, sfilando ciclisti spinti a compassione dalla folla a fianco. E infatti arrivo un po’ affannato. Niente di grave ma mancano ancora 5 colli e 2mila metri di dislivello. Ora è un affare tra me e la montagna. In un breve tratto di strada pianeggiante, su cui dovrò ripassare quasi alla fine del percorso, incrocio ciclisti che hanno già scalato altri quattro colli e, quando non sono ancora le 11.30, puntano già al Gorolo.
La vetta di Pugliano. Il Monte Tiffi lo prendo con il rispetto dovuto a una salita corta ma col 16% di pendenza. Primi tornanti belli tosti col 25, poi vado via spedito fino allo strappone finale, 5, forse 600 metri di rampa tutta dritta in verticale sotto il sole. Non soffro, guardo il panorama alla mia sinistra e riscopro per l’ennesima volta che la Valle dal Marecchia è una meraviglia. Dai, ci siamo, mi dico. Breve discesa e attaccano subito i 9 km di salita che portano a Perticara. Lunga, mi tranquillizzo, ma pedalabile: pendenza media solo il 4,11 percento. E invece patisco come un cane sulle prime rampette al 12%. Mi domando se e quando arriverò mai a Cesenatico in bicicletta. Aspetto la “ramazza” (il pullman per chi resta a piedi) o chiamo Roberta? Salgo in piedi sui pedali per tentare di cambiare ritmo ma non c’è niente da fare. Arriverò entro il tempo massimo, 12 ore dalla partenza? A 4 km dalla vetta la strada spiana e l’umore torna in sella. Riprendo un ritmo decente e sono a Perticara. Pasta party. Mezza porzione e poi breve salitella per Sartiano e siamo a Ponte Molino Baffoni, ai piedi del Monte Pugliano. Mi sento di nuovo bene. Ora però c’è un’altra impresa dentro l’impresa. Altri 9 km di salita ma questa volta più ripidi. Via regolare col 25 sin da subito. Vado su che è un piacere. Media bassa, naturalmente, ma sofferenza quasi azzerata. Arrivato a Maiolo, poco dopo la metà dell’ascesa, penso che è quasi fatta ma non è vero. Sembra non finire più. Cerco di ricordarmi il percorso ma qualcosa non funziona. A ogni tornante immagino di vedere l’ultima rampa che porta a Madonna di Pugliano, a 800 metri di quota (la vetta della Nove colli) ma c’è sempre un altro tornante ancora. Un ciclista che affianco mi fa presente che abbiamo già totalizzato 3mila metri di dislivello. Roba mai fatta in vita mia. Ma ne mancano ancora 800.
I rimedi della nonna. In cima a Pugliano scattano i rimedi della nonna. Al ristoro c’è una vaschetta con dei limoni. In tanti se li sfregano sulle gambe per fare passare i crampi. A me fanno male le mani, un ginocchio e terribilmente il ditone del piede sinistro che sento battere ogni volta che prendo una buca. Ultima discesona sul crinale che passa per San Leo piuttosto pericolosa. A forza di tirare i freni ho mani e braccia che mi fanno più male delle gambe. Nell’ultimo tratto al 15% sarei pronto a fare un colle in più in salita a patto che finisca la discesa. Poi finalmente sono a Secchiano. Bivio per Sogliano e sono sulle prime rampe del Passo delle Siepi, dopo 156 km (che è già il mio record di strada). Ottavo e penultimo colle. Un nano rispetto agli altri con pendenze al massimo del 7%, ma vado su col 25 lo stesso, modalità risparmio energetico estremo. Arriva la pianura e ci si attacca a tutto.
Il temuto Gorolo. Controvento è una faticaccia, poi eccomi ai piedi del temuto Gorolo. Quattro chilometri di ascesa, pendenza media 6.07%, ultimo chilometro al 17%. Il 25 va dentro ormai in automatico. È dura ma è tanto di conforto vedere in lontananza il grattacielo di Cesenatico. Il peggio deve venire, però. Mi attacco al manubrio, mi lascio alle spalle il cartello che ricorda che la strada sale al 17% e vado su (al minimo sindacale, 5 all’ora). Devo dire la verità: pensavo peggio. Ero convinto che dopo 174 km e 3.500 metri di dislivello nelle gambe affrontare il Gorolo non fosse umano. È fatta. Ma tra Borghi, Tribola e Montalbano ci sono ancora parecchi falsi piani. Sono stremato ma felice come un bambino. Nella testa mi passano migliaia di pensieri ma sono quasi tutti privati e li tengo per me, alzando di tanto in tanto gli occhi al cielo. Al cartello dei 30 km/h all’arrivo sento la gamba che gira benissimo. In pianura viaggio ai 35 all’ora e non avverto più la fatica. Meno 20. Ci siamo. Agli incroci, dopo quasi 6 ore dal passaggio dei primi, troviamo ancora qualcuno che ci applaude. È comunque emozionante. A rimetterci coi piedi per terra c’è invece un addetto al traffico che ci saluta con un consolatorio <+cors>dai burdel, cla è bela fnida<+testo_band>. I migliori li ha visti passare verso mezzogiorno: alle 17.15 sa di avere davanti degli sfigati parecchio disperati. Ma siamo contenti così. Meno 10. Il grattacielo è lì che idealmente lo puoi toccare. Non mi sembra vero di avercela fatta. E di essere ancora in grado di tirarmi dietro una quindicina di ciclisti che non mi danno un cambio neanche se li ammazzi. Loro sono sfiniti. A me sembra di averne ancora.
È fatta. All’arrivo sono soltanto applausi. Poi scopro che sono per un fondista (a piedi) che l’impresa deve averla fatta davvero in un evento collaterale della Nove Colli. Finta volata sul traguardo e medaglia di partecipazione al collo. “Grazie – dico alla ragazza che mi premia – letteralmente parlando è la cosa che mi sono sudato di più nella vita”. Vedo un cartello con scritto «massaggi gratis» ma dentro di me scoppia una voglia immensa di tornare a casa dalla mia famiglia. Arrivato alla macchina mi accorgo di non avere riconsegnato la cavigliera con il sensore per la gara. Devo rifare cento metri in andata e altrettanti in ritorno ma adesso mi sembrano montagne da scalare. Salgo in macchina, resto imbottigliato quasi un’ora nel traffico. Arrivo a casa e trovo mia figlia Nina a cui faccio vedere la medaglia. Lei se la mette al collo tutta contenta e mi dice: “bravo babbo che hai vinto questa bellissima medaglia”. Provo a spiegarle che non ho vinto niente, essendo arrivato dopo 11 ore e 4 minuti dalla partenza, e che è soltanto una medaglia di partecipazione ma lei insiste nel dire che sono stato “bravissimo”. Inutile insistere. Qualche settimana fa mi aveva detto che sono il suo «eroe». Perché? “Perché mi fai un sacco di coccole”. A lei del podio non frega davvero nulla. E neppure a me.
Enea Abati