Sulla linea del Castelli si mossero i tre successori – i vescovi Torfanini, Salicini, Gessi – , anch’essi di origine bolognese, assicurando una importante coerenza e omogeneità di indirizzo pastorale.
La parrocchia continua ad essere il centro nevralgico della catechesi, che accompagna le tappe della vita cristiana.
I sacramenti assumono sempre più una funzione centrale nella vita della chiesa: oltre al sacramento dell’ordine sacro, l’eucarestia, la confessione e il matrimonio.
Riguardo all’eucarestia si prescrive ai celebranti il rispetto letterale del messale e delle formule da pronunciare durante il sacramento e ai laici la santificazione della feste e la comunione almeno annuale, con l’obbligo da parte dei parroci di trasmettere al vescovo le liste degli “incomunicati”. Contemporaneamente a queste forme che alla mentalità moderna appaiono esteriori e coercitive, si sviluppa anche un movimento spontaneo, “dal basso”, di adorazione eucaristica, cha dà origine alle Compagnie del SS. Sacramento, il numero delle quali, nel giro di vent’anni, cresce da 24 a 88.
Contrariamente alle vicine Faenza e Imola, a Rimini tali Compagnie non hanno una funzione antiprotestante, ma mirano a incentivare la devozione dei fedeli, in particolare attraverso l’adorazione delle Quarantore, pratica nata a Roma nell’oratorio di san Filippo Neri e diffusa presto in tutta l’Italia. Oltre alle pratiche di devozione la Compagnia curava l’accompagnamento del viatico alle case degli ammalati, si prodigava in opere di carità verso ammalati poveri, offriva abitazioni alle vedove dei confratelli e dotava le zitelle povere della confraternita. Quella eretta presso la cattedrale contribuiva anche alle spese per le torce mantenute accese davanti al Santissimo. La venerazione verso il Santissimo porta nel 1599 a inserire anche sant’Antonio da Padova – di cui si ricorda il miracolo della mula – nel novero dei santi patroni della città.
Per quanto riguarda il matrimonio, si prevede una forma preceduta dall’interrogatorio sulla libera volontà degli sposi, un’indagine sugli eventuali impedimenti e la celebrazione in chiesa alla presenza del parroco della sposa e di due testimoni, proibendo non solo i matrimoni clandestini e i ratti, ma anche tutte le consuetudini e le usanze che non sancivano una netta separazione tra il prima e il dopo del matrimonio. E in questo c’era perfetta convergenza tra il potere civile e religioso. Infatti i registri che i parroci dovevano tenere aggiornati con la registrazione degli atti di battesimo e di matrimonio assolvevano anche alla funzione di anagrafe civile.
La confessione era il sacramento che richiedeva maggiore circospezione, per evitare abusi e strumentalizzazioni: venne imposta la separazione tra confessore e penitente con la costruzione di confessionali di legno o di pietra; i confessori dovevano avere una licenza scritta del vescovo e partecipare alle conferenze sui casi morali, per un lavoro di aggiornamento e verifica della preparazione. Le conferenze sui casi morali erano considerate, infatti, un luogo di formazione permanente del clero: i partecipanti ricevevano un “caso” che dovevano studiare e risolvere alla luce degli autori più accreditati e discutere nella successiva conferenza.
E non mancava nemmeno un controllo scrupoloso sul “modo” della celebrazione: dal materiale della teca in cui doveva essere custodito il Santissimo, alle immagine sacre, che in questo periodo assumono un ruolo determinante al fine di catturare l’attenzione dei fedeli e coinvolgerli anche emotivamente nelle storie raffigurate. Per questo le costituzioni sinodali ribadiscono che non si possa rappresentare il sacro per immagini o teatralmente senza il permesso del vescovo. Del resto lo stesso Sormani al termine della sua visita aveva fatto sostituire in ventitré chiese delle tele ritenute non adeguate ai canoni iconografici e il vescovo Castelli aveva affermato l’esigenza della verosimiglianza nella rappresentazione dei personaggi e degli episodi delle Sacre Scritture.
Gli interventi di regolazione riguardano anche le confraternite, non solo quelle di nuova istituzione, come le già ricordate confraternite della Dottrina cristiana e del SS. Sacramento, quelle dedicate al culto dei santi o le tante dedicate al culto della Vergine, ma anche quelle sorte nei secoli precedenti. I vescovi si preoccupano di promuovere una maggiore omogeneità e uniformità delle regole che le governano, trasformandole in un codice di comportamento morale e pratico che gli affiliati sono tenuti a seguire nel corso della loro vita.
Diventarono così uno strumento per riportare una maggiore moralità sia all’interno delle istituzioni ecclesiastiche che nel comportamento dei fedeli, per arginare le eresie, promuovere una organizzazione parrocchiale più efficiente e orientare verso forme regolate di devozione e verso una condotta di vita quotidiana più conveniente. I confratelli, infatti, vivendo da “laici” all’interno di una fitta rete dei relazioni, col loro stile di vita finivano per influenzare i comportamenti anche degli altri fedeli.
Non poteva rimanere fuori dall’intereresse dei vescovi nemmeno il Capitolo della cattedrale, che al tempo di Castelli era costituito di due “dignità” (prepositura e arcidiaconato) e dodici canonici. Essi avevano il dovere della preghiere nelle ore canoniche e della celebrazione quotidiana di una messa. Oltre alle prebende personali, diverse per ogni canonicato, ricevevano trimestralmente le distribuzioni dei proventi della “mensa capitolare”, computate sulla base delle presenze quotidiane. L’impegno dei vescovi fu, da una parte quello di livellare i redditi, dall’altra di far sì che i canonici garantissero la presenza e svolgessero in maniera accurata i loro compiti. A questo fine il vescovo Torfanini stabilì dei “puntatori” che dovevano registrare assenze o ritardi e sanzionò, elencandoli con precisione, alcuni comportamenti indisciplinati (come vagare nel coro o ritornare in sacrestia in maniera disordinata).
Stesso interesse per la musica. Per rendere più solenne il culto già nel 1518 il vescovo Bonadies aveva comprato un organo a sue spese e nelle costituzioni capitolari del ‘20 era stato stabilito a chi competesse cantare la messa nelle domeniche e nelle altre festività. Con il diffondersi del canto figurato la Cappella della cattedrale era divenuta numericamente più consistente con la presenza di soprani, contralti, tenori e bassi; l’insegnamento del canto ai seminaristi aveva contribuito molto all’efficienza della Cappella stessa, per la possibilità di avere più facilmente “putti” cantori. Il maestro di canto in seminario, infatti, era tenuto a insegnare sia il canto gregoriano che il canto polifonico. Ma, mentre le prime composizioni polifoniche avevano avuto a loro base il canto gregoriano, sempre più i musicisti del Quattro e Cinquecento avevano finito per assumere a tema delle loro messe la musica delle composizioni popolari e la musica armonica dei sonetti e dei madrigali. Per questo, a partire dal visitatore apostolico Sormani, la preoccupazione fu di fare in modo che al canto sacro non si “mescolasse niente di lascivo”, cioè che non si componessero canti sacri sulle arie dei canti profani, il che avrebbe spinto i fedeli a pensieri non proprio devoti! La stessa disciplina dovette essere applicata alle composizioni organistiche, alcune delle quali riprendevano arie popolari, che facevano riferimento a situazioni e personaggi che poco avevano a che fare col clima di preghiera: “la mimì, la martinelle, la chocone, l’albergona, la spiritata, la spagnoletta…”.(5-continua)
Cinzia Montevecchi