Nei primi decenni del XVI secolo il territorio del Riminese vive anni molto difficili. Con la fine dell’avventura di Cesare Borgia, Pandolfo IV Malatesta nel 1503 era rientrato a Rimini, ma un mese dopo l’aveva ceduta a Venezia, che sarà costretta a riconsegnarla nel 1509, dopo essere stata sconfitta, nella battaglia di Agnadello, dalla lega promossa da papa Giulio II della Rovere. In questa occasione il commissario apostolico Antonio da Monte Savino riconferma gli antichi Consigli (dei 12 e dei 300) e istituisce un Consiglio ecclesiastico di 130 membri, con il compito di amministrare gli affari del Comune.
Solo un anno dopo scoppia una terribile peste, che riduce gli abitanti della città a meno di cinquemila unità.
Rimini non fa tempo a riprendersi che si trova coinvolta nella cosiddetta “lega santa”, promossa da Giulio II contro i Francesi, che avevano convocato a Pisa un Concilio per deporlo. Il suo territorio è attraversato sia dalle truppe spagnole alleate del papa, sia da quelle francesi e devastato dalle truppe di Lorenzo dei Medici e di Francesco Maria Della Rovere, diretti a Urbino per contendersene il possesso.
Poi è la volta della guerra contro Carlo V (il sovrano sul cui impero non tramontava mai il sole): papa Clemente VII de’ Medici, alleato con la Francia, tenta di impedirne l’ascesa al trono imperiale, finché, dopo il terribile saccheggio di Roma da parte dei Lanzichenecchi (1527), viene ad un accordo e lo incorona a Bologna nel 1530 con la corona ferrea (che lo riconosceva re d’Italia) e con la corona imperiale. Nel viaggio di andata e in quello di ritorno viene ospitato con grande premura a Rimini, ma per l’occasione, per due volte devono essere “ospitate” anche le truppe dell’imperatore (nel 1531 e nel 1533).
E il passaggio degli eserciti non è l’unica preoccupazione: nel 1523 e nel 1528 la città è di nuovo falcidiata dalla peste, alla quale si aggiungono lo straripamento del Marecchia e ben tre tentativi ad opera dei Malatesta (prima Pandolfo IV e nel 1535, per due volte, il figlio Sigismondo II) di rientrare.
Finché con il ritorno del territorio sotto il dominio diretto della Santa Sede sembra sia possibile finalmente riprendere fiato: viene riparato il porto, restaurato il palazzo del Cimiero, riedificato un tratto di mura dall’anfiteatro al lazzaretto, eretta la torre dell’orologio nella attuale piazza Tre Martiri. Tanto è vero che quando nel 1541 il nuovo pontefice Paolo III si ferma a Rimini, di ritorno da un incontro con Carlo V, può essere accolto in maniera “splendida”.
Il Consiglio dei 130, del quale avrebbero dovuto far parte cento “gentiluomini” e trenta “cittadini”, non raggiunse mai di fatto l’obiettivo che si era prefisso Giulio II di integrare nel governo della città anche il ceto commerciante e artigiano, ma aiutò comunque il formarsi di un patriziato locale meno rissoso e meno incline alla pratica violenta della politica. Inoltre, a differenza che in altre città della Romagna, la tendenza ad attribuire a ristrette élite la dignità nobiliare e il diritto di esercitare il potere venne, a Rimini, contrastata dagli stessi meccanismi di selezione che, restringendo eccessivamente il numero delle famiglie che potevano (o volevano) esercitare le cariche non pagate, finirono per ammettere ai gradi dei nobili famiglie arricchite di recente, accentuando un processo di selezione non più rispetto alla nascita, ma sulla base del censo. Indicativo il fatto che i Capitoli contro i matrimoni “diseguali”, che saranno emessi nel 1773 per decretare l’esclusione dal Consiglio del nobile che avesse sposato una donna “ignobile” – di famiglia non aggregata al Consiglio – , a Rimini verranno attenuati, prevedendo che i matrimoni fossero possibili, se consentivano di acquistare una ricca dote e una ricca eredità e salvare così il “decoro” delle famiglie nobili. (1- continua)
Cinzia Montevecchi