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Il razzismo? Materia del passato

È ozioso girare attorno al problema con mille parole. C’è un solo modo per dare vita ad una società non razzista: creare l’integrazione fin dai primi anni di scuola. Lo dimostra l’esperienza di una primaria riminese con bambini di tutto il mondo in classi miste: non sanno cosa sia il razzismo.
La percezione della realtà è più importante della realtà stessa. La conferma arriva dall’atteggiamento opposto di due diverse generazioni di fronte alla stessa identica questione.

L’esperienza delle Ferrari. Scuola «Ferrari» di Rimini, primo circolo didattico. Una scuola elementare. Siamo nel centro storico della città, vicini alla stazione, in un quartiere abitato da tantissime famiglie di stranieri, soprattutto nord africani, est europei, cinesi e bengalesi, e da molti italiani. La scuola riflette questa multiculturalità, ma se per alcuni genitori questo è un problema, per i bambini non lo è.
L’anno scorso un caso fece clamore, un genitore di un bimbo italiano pre-iscritto alla prima elementare decise di ritirarlo perché nella classe erano presenti solo due bimbi italiani, mentre gli altri erano stranieri.
Fece meno eco un’altra notizia: un padre, di nazionalità cinese, parla con le maestre per iscrivere il proprio figlio. Prima, però, chiede di vedere il registro. Dopo averlo controllato decide di non proseguire. Alla domanda delle maestre, risponde: “non lo iscrivo perché in questa classe ci sono troppi bimbi napoletani”. Bianchi contro neri, orientali contro occidentali, nord contro sud… È facile trovare qualcuno da emarginare perché diverso, è sufficiente percorrere pochi chilometri. Ma i bambini che sono rimasti in quella classe ci insegnano un’altra storia. Ci insegnano che il razzismo non è un fenomeno naturale, ma si eredita dalla famiglia. I bambini, nelle classi miste, non sanno cosa sia il razzismo. Per loro un compagno di classe è un compagno di classe, indipendentemente dalla provenienza. Il razzismo nasce quando un bimbo sente a casa un genitore lamentarsi degli stranieri che vengono incolpati del malfunzionamento della scuola. Solo allora il bambino riporta questo atteggiamento in classe.

Il dato e la paura. In provincia di Rimini solo il 10% della popolazione scolastica è straniera, anche se non è distribuita in modo omogeneo tra gli istituti. Da qui nasce la paura, per alcuni genitori, che il tempo necessario ad insegnare la lingua e i rudimenti della cultura a chi non è italiano rallenti anche la scolarizzazione dei propri figli.
“Ogni bambino ha i suoi tempi – spiegano Giovanna Basile e Marzia Mussoni, due insegnanti della scuola Ferrari – e la classe deve trovare il ritmo giusto per dare a tutti il modo di imparare”.
Yuejie, Elettra, Jay Ken, Sanaa, Alfredo, Beatrice, Kaidie, Petro, Agostino, Jamila, nella IIIC di Giovanna e Marzia sono tanti i bimbi che vengono da famiglie non italiane, e convivono insieme ad alcuni riminesi.
“Questo è il terzo ciclo che io e Marzia facciamo assieme – racconta Giovanna – e abbiamo avuto sempre tanti bimbi non italiani. Ma le cose sono cambiate. Questa classe ha molti bimbi stranieri dal punto di vista anagrafico, come nome e nazionalità, ma nei fatti è una classe multiculturale matura. Per la maggior parte sono bimbi nati in Italia, da famiglie che risiedono qui da tempo e che sanno l’italiano”.

La scuola si adegua. Così è anche in altre classi dell’istituto di via Gambalunga. E la scuola, che pure è lenta a recepire le novità, in questi anni si è adeguata al cambiamento della società.
“Sono ormai dieci anni che è aumentata l’affluenza di bambini stranieri, noi insegnanti abbiamo fatto corsi di aggiornamento organizzati dal centro pedagogico e anche corsi specializzati di didattica per bambini stranieri. Se un bimbo entra in una classe di tutti italiani, organizzata secondo una didattica vecchio stile, ci può essere un rallentamento, o addirittura può rischiare di rimanere un po’ escluso, ma con questi nuovi corsi, questo approccio didattico e anche i nuovi strumenti, come la lavagna magnetica e i libri digitali, l’insegnamento viene tarato in modo diverso: nessuno rimane escluso e i tempi sono giusti per tutti i bambini. Alla fine del quinto anno di scuola primaria, i bambini sono tutti al pari col programma. Inoltre, e questo non è poco, la presenza di bambini di altre parti del mondo arricchisce il bagaglio culturale di tutti. I bimbi che hanno frequentato classi multiculturali sono più ricchi di conoscenze, più aperti e già preparati ad affrontare una società più complessa”.
Questo non vuol dire che non esistano problemi, ma le difficoltà riguardano le singole situazioni della famiglia, non gli stranieri.
“È vero che ci sono alcuni gruppi che tendono ad essere un po’ chiusi e a stare tra di loro, come i cinesi o gli arabi, ma i bambini sono sempre molto ricettivi e curiosi. Quando poi ci sono situazioni che non si sbloccano chiediamo l’intervento dei mediatori culturali.
Se ad esempio dopo un anno di scuola un bambino ancora non pronuncia una parola di italiano, il problema quasi sicuramente non è legato all’apprendimento della lingua, ma ad un rifiuto di impararla. In questo caso con il mediatore, insieme alla famiglia e al bimbo, si cerca di capire l’origine del blocco, e solo dopo può cominciare l’alfabetizzazione. L’accoglienza, poi, prevede alcune fasi. Non si parla di integrazione a tutti i costi nella cultura ospitante, si rispettano le tradizioni, ma le famiglie devono collaborare. Poi noi raccogliamo informazioni dalla scuola materna quando ci sono, oppure valutiamo le relazioni dei mediatori”
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Una coccarda arancione. Il migliore risultato è arrivato la scorsa settimana. La scuola recepisce la circolare per la settimana d’azione contro il razzismo e vengono organizzati lezioni e laboratori.
“Abbiamo cominciato a parlare del razzismo, ma i bambini non capivano, non riuscivano a farsi un’idea del concetto. Quando ho spiegato i vari tipi di razzismo, nazionalità contro nazionalità, maschi contro femmine, o anche tra italiani, i bambini, come per un gesto di orgoglio, hanno cominciato ad alzare la mano e dire il loro paese di provenienza: chi aveva il padre moldavo, chi la madre albanese, e così via, tutti erano fieri della loro famiglia. Durante la settimana abbiamo parlato di Mandela e del massacro di Sharpeville. I bambini sono stati molto interessati e hanno fatto tante domande. Abbiamo preparato coccarde arancioni da attaccare sul grembiule e una grande da mettere alla finestra. La cosa più bella è stata la reazione dei bambini a quello che è successo a Sharpeville. Per loro razzismo si identifica soprattutto con guerra, e la risposta è la pace”.
Ma la cosa che dà più speranza, è che per quei bambini gli eventi raccontati e i fenomeni di razzismo sono percepiti come qualcosa di passato, di vecchio, come la storia dell’antico Egitto o degli uomini primitivi, che stanno studiando proprio in questi mesi. Ed è il segnale forse più bello e speranzoso: che chi cresce già insieme, non sappia mai cosa sia il razzismo, se non come una voce di un passato superato e oramai incomprensibile in un mondo multiculturale. È doveroso un ringraziamento alle maestre che portano avanti questo difficile lavoro, spesso abbandonate dalle istituzioni che si riempiono la bocca di proclami, ma poi si disinteressano del modo di portare avanti i progetti, e un altro alle famiglie che ci credono e che non si tirano indietro, sia italiane sia staniere, tra mille difficoltà. Solo così si costruisce il futuro, e l’esempio di una scuola può diventare un modello da seguire.

Stefano Rossini
Riminisocial 2.0