Sono storie di speranza quelle raccontate al primo incontro del vescovo Lambiasi con i cresimandi. Storie di uomini e di donne travolti dall’esperienza della croce, quella più umana e sopportabile dell’ostacolo, dell’imprevisto, dello smarrimento terreno. Quella croce che non si sa perché arriva, e si porta con sconcerto e a fatica, ma che la fede insegna, aiuta a guardare a ad amare. La si guarda impauriti, e si cade a tenerla sulle spalle. Ma si risale, più forti e fiduciosi di prima. Ai genitori dei cresimandi, riuniti in Cattedrale, questi uomini e queste donne hanno raccontato chi erano e chi sono: non più impauriti, ma sollevati, non più arrabbiati, ma pieni di speranza. Perché sì, si può risorgere anche se si è ancora in vita, se le difficoltà che incontriamo ci appaiono insuperabili al punto di paragonarle alla morte. Sì può risorgere, e a quel punto non si smette più di credere.
La storia. Alla sua resurrezione, Antonia Chiara Scardicchio, ha dedicato persino un libro. Lei che spiazzata dal dolore aveva smesso di scrivere. Lei che si riteneva un’esperta “dell’arte della lamentazione”, che mai avrebbe pensato di farcela. Madri. Voglio vederti danzare è rivolto alle mamme come lei, custodi del dono di un bimbo malato. La sua storia inizia sei anni e mezzo fa, quando scopre, a pochi mesi dalla nascita, che la figlia Serena è affetta da disabilità con tratti autistici. Una bambina il cui futuro è seriamente compromesso, alla quale è difficile destinare sogni e progetti. “Mi sono ritrovata al cospetto di una scelta molto importante – racconta Chiara – dovevo decidere cosa fare della mia vita, se essere felice o infelice, e tutto cospirava perché io fossi assolutamente infelice”. Non sapeva, sei anni e mezzo fa, che non serve scegliere, che si può essere felici e basta. Nessuno glielo aveva insegnato. Piuttosto aveva imparato a lamentarsi, ad aspettarsi cose dalla vita. E se le cose non arrivavano, aveva imparato che poteva sentirsi legittimata ad essere arrabbiata. Si arrabbia, quando nella sua bimba di sei mesi scopre i segni dell’autismo. E ciò che più di tutto la sconvolge è capire di non poterle nemmeno parlare. Ricercatrice e docente al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia, Chiara è una cultrice della parola. “Sono sempre stata una bambina secchiona, i libri sono sempre stati la mia coperta di Linus, il mio riscatto. E da secchiona che era riuscita a realizzare il sogno di diventare professore universitario, avevo non poche ambizioni rispetto all’arrivo di un figlio”. Alcuni poi, sono sogni comuni a tutte le mamme. Come il desiderio di raccontare ai propri bimbi una favola, cosa che Chiara non ha mai potuto fare. “Tutti i libri che ho letto, tutta la cultura che pensavo mi potesse sorreggere in tutti i momenti della vita, tutto quanto è crollato. Pensate che paradosso, avere un figlio con cui non posso nemmeno parlare. Perché Serena non parla”. Eppure è proprio Serena, senza parlare, a insegnare qualcosa a Chiara: che è quando rimani nudo, com’è rimasta lei di fronte alla malattia della figlia, che tutto trova un senso. “Ho smesso di cercare risposte, di mettere me al centro, sono rimasta in silenzio, al suo cospetto. Serena è una bambina felice, è concentrata sull’essenziale, che è la vita”. Non sminuisce la fatica e la sofferenza di ogni giorno, quella c’è ancora, ma con il sorriso sulle labbra oggi Chiara benedice questa avversità, addirittura riconoscendo che senza Serena ora sarebbe una persona diversa, peggiore. Sorride ancora, mentre descrive il confronto con i genitori di bimbi sanissimi, che spesso si lamentano di cose del tutto irrilevanti. Come quella mamma che qualche giorno fa le ha confessato di non riuscire a spiegarsi perché la propria figlia non avesse preso 10 a scuola ma soltanto un misero 9. E come forse avrebbe fatto lei stessa, se non fosse arrivata Serena. Chiara oggi è una mamma diversa, forse migliore. E vive anche la fede in modo diverso. “Chi non condivide l’esperienza della fede potrà dire che dal punto di vista psicologico è una forma di autoriparazione, che si utilizza la fede come se fosse un cuscino. No, Dio non è soltanto un consolatore, è il confronto con la verità. Fa bene a tanti credere che la nostra sia soltanto la religione della croce. Se io mi comporto come se fossi solo figlio di un Dio morto, allora questo fa dire a chi non crede che la nostra è la religione della quiescenza, della rassegnazione. Io, nell’incontro con il dolore della malattia di Serena mi sono sentita figlia di un Dio risorto. Per tutta la vita, la mia preghiera è stata: Dio salvami. Ora ho capito che la mia preghiera deve essere un’altra: Dio mi ha salvato”.
Isabella Ciotti