Oggi ci sono gli Elkann, i Briatore, i Marchionne. Mezzo secolo fa c’era Adriano Olivetti. Tra i più grandi industriali del Novecento, presidente della prima fabbrica italiana di macchine per scrivere, fondatore del partito Movimento Comunità e delle Edizioni di Comunità, Olivetti oggi è per molti il simbolo di un’Italia che non c’è stata, il padre di uno sviluppo tecnologico che forse avrebbe portato il paese ad altri, e alti, livelli. O come disse di lui Montale, “l’esempio dell’uomo nuovo che serve a questo paese, sempre che in questo paese ci sia ancora qualcosa da salvare”.
È l’imprenditore che riuscì a trovare un equilibrio tra comunismo e capitalismo, tra profitto aziendale ed esigenze dei lavoratori; il dirigente che nel 1938 introdusse l’assistenza per le dipendenti mamme, e che attorno alla fabbrica fece costruire case, scuole e servizi perché “l’operaio – diceva – non sigilla la sua umanità nella tuta da lavoro”. E’ anche l’industriale che negli anni Cinquanta scelse di investire nel dipartimento dell’elettronica, che nel ’65 avrebbe portato alla creazione del primo personal computer, il Programma 101, per poi essere ceduto all’americana General Electric mettendo così in stand-by l’allora promettente Italia.
Beniamino de’ Liguori Carino è il nipote di Adriano Olivetti, ma è anche e soprattutto colui che ha riportato alla luce le Edizioni di Comunità, fondate da Adriano nel 1946 per diffondere il suo pensiero e quello degli studiosi del tempo, e tornate nel 2012 a ripubblicare i suoi scritti. Dal celebre Discorso ai lavoratori, indirizzato nel 1955 agli operai di Pozzuoli, all’ultimo uscito Le Fabbriche di bene, presentato alla Cgil di Rimini lo scorso 27 febbraio in occasione del 54° anniversario della sua morte.
No, le sue opere non ci salveranno dai mali del nostro tempo, ma per andare avanti, per andare “oltre la crisi”, intanto può servire fare un passo indietro.
Le fabbriche di bene: un nuovo capitolo sul pensiero di Adriano Olivetti. Perché è importante ripubblicare i suoi scritti?
“Le fabbriche di bene sono il compimento teorico del pensiero di Adriano sul tema del lavoro. È il libro in cui progettava la futura creazione di una fondazione che riunisse le tre forze motrici su cui doveva basarsi l’impresa: la cultura, con una quota in mano all’università, la politica e il sindacato. Ora che ha vinto un altro modello economico e la modernità sembra aver perso il suo obiettivo, vogliamo mantenere l’esempio che è stato. Perché Olivetti è uno dei personaggi più citati e meno letti in Italia, perché quello dei suoi scritti è un contenuto vivo, di grande attualità. E anche per scardinare i falsi miti attorno alla sua figura”.
Quali?
“Di lui si è sempre parlato come dell’utopista, dell’imprenditore rosso, del paternalista. I suoi scritti sono la dimostrazione del contrario, di quanto fosse invece chiaro e concreto il suo pensiero sulla finalità sociale dell’azienda. Oggi la responsabilità sociale d’impresa viene vista come destinare una quota di bilancio al risanamento di situazioni che l’impresa stessa contribuisce a creare, per lui invece era una vocazione. Non era semplicemente attento al benessere degli operai, ma il benessere degli operai doveva essere il fine dell’impresa. Nella sua biblioteca abbiamo trovato un libro, che Adriano acquistò negli Stati Uniti quando aveva 24 anni, sullo stato del welfare in quegli anni e con una lista degli imprenditori americani più attivi nel campo dell’assistenza sociale. In fondo alla lista lui aveva scritto: «…and Adriano Olivetti from Ivrea»”.
Trovare un nuovo Adriano Olivetti ai giorni nostri è possibile?
“È difficile. Si può trovare un imprenditore con la stessa capacità dirigenziale, o un politico particolarmente affinato nell’elaborazione teorica della forma dello Stato, ma ciò che davvero è irreplicabile è il fatto che queste qualità vivessero in una vita sola e in un’unica attività. Credo però che qualcosa stia cambiando, che gli imprenditori abbiano iniziato a capire come la crisi non sia frutto solo di una congiuntura economica ma di un modello di sviluppo che non regge più. Adriano aveva intuito anche il problema ambientale, contro cui oggi molti si scontrano. Sapeva che si deve a crescere a un ritmo giusto, e non “crescere per crescere”.
Qual è oggi il pubblico di Olivetti?
“Esiste un pubblico di nostalgici, ma ci sono anche quelli che si fermano alle vetrine a guardare i libri, si lasciano andare a un «ah, Olivetti!», e vanno avanti. Straordinaria è invece la risposta da parte del pubblico che Olivetti non lo aveva mai letto, come i giovani imprenditori o gli studenti. Io stesso da ragazzo avevo un sussulto quando vedevo il suo nome nell’indice dei libri, perché era raro trovarlo sia nei manuali scolastici che nelle raccolte di saggi. Ora molte scuole lo hanno adottato, comprendendo che in quei testi ci sono parole e idee universali. Quando leggiamo le sue cose pensiamo sia letteratura, non saggistica”.
Forse l’attuale corsa alla ricchezza ha contribuito a smantellare il modello che lui aveva creato. Oppure le pressioni politiche. Si dice che lui stesso sia stato vittima di un complotto per la cessione del dipartimento elettronico…
“Non so se questo sia stato esito di un complotto, ma è certo che la fine dell’elettronica ha decretato la fine della Olivetti. Produrre internamente la tecnologia era uno dei motivi del successo ottenuto fino a quel momento. Il figlio di Adriano dopo la sua morte ha cercato nuovi fondi per portare avanti il dipartimento, ma gli investimenti fatti negli anni ’50 avevano portato a una crisi di liquidità, e da lì la cessione alla General Electric. Diciamo che è stata fatta una scelta economica”.
Nel 1938 la creazione dell’ALO, l’Assistenza Lavoratrici Olivetti, e la retribuzione quasi totale per nove mesi per le donne incinte.
“Nelle motivazioni del provvedimento si legge: «Esprimiamo con questo istituto la nostra piena solidarietà affinché nessuna madre, e qui diremmo meglio nessuna operaia che sia madre, possa vedere con invidia e con dolore quelle madri che hanno la gioia di tenere in una casa i primi mesi di vita il loro bambino». Questa non era la conquista di un diritto, ma l’espressione della consapevolezza di un modo di vedere l’altro come qualcuno di cui rispettare le esigenze più profonde. In Adriano non c’è mai un’idea dell’uomo come persona banale”.
Isabella Ciotti