Riassumere organicamente un anno di pontificato di papa Francesco? Non basterebbe uno o più libri, che pure sono stati scritti, e bene, perché sempre incompiuti: la novità detta o fatta dal “papa venuto dalla fine del mondo” lo renderebbe continuamente invecchiato.
Quella sera, il 13 marzo 2013, papa Bergoglio arrivò a cena nelle case di tutto il mondo con la novità di un saluto bonario e informale. All’imprevedibilità di parole e gesti (forse un dato caratteriale, sicuramente un regalo della creatività dello Spirito Santo che abita in lui e lo rende pronto a ogni soffio), in questo primo anno di pontificato papa Francesco ha associato una radicalità evangelica fatta di tenerezza, misericordia, cultura dell’incontro. Senza dimenticare l’accorato richiamo alle periferie esistenziali e del mondo, l’invito ad andare lontano. ilPonterivive questo cammino con una serie di intense testimonianze riminesi.
Lo stupore è il sentimento che in questo anno di “pontificato francescano” ci ha accomunati, credenti e non credenti. Gesti inediti, uno stile nuovo, una Chiesa che esce dalle posizioni di difesa e dichiara di volersi esporre per evangelizzare fino alle periferie. L’incontro con la gente, con gli immigrati, l’invito a toccare la carne del povero e non accontentarsi di un’elemosina asettica… I media quotidianamente attenti alle parole e ai gesti del Papa, rilanciandoli positivamente. Stupore! Entusiasmo!
Ma anche un sentimento di disagio di fronte al continuo appello alla conversione, a fare sul serio; disagio perché non basta la novità del Papa, perché sento che anche io devo cambiare; che quelle parole, quegli inviti non sono per altri, ma per me. In questo anno mi sono messo molto in discussione e continuo a farlo. Il Papa alterna richiami esigenti e espressioni di tenerezza. In mezzo ci sono io, coinvolto, nonostante tutto, in un’esperienza grande e bella: quella della mia vocazione.
don Andrea Turchini
rettore Seminario Vescovile
La cosa è sotto gli occhi di tutti: le parole e i gesti di Francesco suscitano entusiasmo, ben oltre il recinto del popolo di Dio. Il fatto è anomalo. Sembra contraddire chi dipinge il nostro tempo come un’età poco ospitale nei confronti della fede. Certo bisognerà aspettare che la tempesta emotiva si plachi, per vedere quanto a fondo il Papa avrà scavato nella coscienza di tutti, credenti e non credenti. Ma una cosa è certa: Francesco ci sta mostrando che il disincanto religioso non rappresenta l’approdo ineluttabile della modernità. A Francesco si applica perfettamente una bella immagine che Charles Taylor ha coniato per un altro grande discepolo di Ignazio, Matteo Ricci. Questi, nel 1582, giunse in Cina “dopo un lungo viaggio per mare”, così come Francesco è arrivato fino a noi “dalla fine del mondo”. La distanza geografica e culturale aiutò Ricci a valutare equamente l’ambiente che lo ospitò: accolse elementi di quella antica sapienza in una rigorosa prospettiva di fede.
Una distanza analoga permette oggi al Papa di intercettare, sotto lo strato dello scetticismo imperante, la domanda di una presenza benefica capace di guidarci attraverso i chiaroscuri dell’esistenza. A dispetto dei molti che fingono di non conoscere quel tormento, Francesco sa che tale domanda unisce il costruttore di cattedrali al manager delle telecomunicazioni. Entrambi cercano uno sguardo che valorizzi i loro slanci e perdoni le loro bassezze. Ora, il nome appropriato di questo sguardo è charis, grazia, misericordia. Che è il nocciolo del Vangelo, nonché il nocciolo del magistero di Francesco.
Il Papa sfronda il messaggio evangelico per ricondurci alla sua radice vivente, il Dio “ricco di misericordia” che irrompe nella storia per saziare, al di là della nostra più fervida immaginazione, la nostra inesausta domanda di una vita buona e felice.
Nevio Genghini
prof. filosofia Liceo classico
La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali” (Intervista a papa Francesco a cura di A. Spadaro, La Civiltà Cattolica, III/2013).
È questo realismo che mi colpisce di papa Francesco dopo un anno di pontificato. Ci ricorda che all’uomo contemporaneo devono essere semplicemente riproposti gli “aspetti elementari del cristianesimo… nei suoi elementi originali, e basta”, come scriveva nei primi anni duemila un’importante figura della Chiesa italiana. La prima povertà di cui spesso parla papa Francesco non è la mancanza di beni materiali, ma un bisogno che solo Dio può colmare e di cui nessuna è esente.
Così si rivolge alla domanda più vera e profonda di ogni uomo, cattolico e non cattolico, intercettando la ricerca del senso della vita che resta una domanda insopprimibile, anche se spesso negata. Questa domanda, che trova nella mia incerta sequela a Cristo la sua risposta, mi spinge a leggere le parole che quotidianamente (omelie di Santa Marta) Francesco pronuncia. Un’educazione continua.
Massimo Pasquinelli
presidente Fondazione Carim
Non ci ardeva forse il cuore nel petto? (Lc 24,32). Il cuore che “arde” è sempre una sorpresa e non accade per la sintonia con una impostazione teologico-pastorale o per una corrispondenza di idee, ma solo quando il nostro io si ridesta nel riconoscere Cristo presente. Papa Francesco ripropone ciò che è essenziale nel cristianesimo: “l’incontro con un avvenimento, con una Persona” (EV 7) e, da questo punto centrale, indica la “riforma della Chiesa in uscita missionaria” (EV 17), provocando costantemente “a uscire verso le periferie esistenziali”, superando ogni ecclesiocentrismo: “Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti” (EV 49). Qui si riconosce la profonda sintonia con Benedetto XVI, nel concentrarsi “sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus” (La Civiltà Cattolica, III/2013, 463-464). Non si può capire Francesco, come non si capiva Benedetto, senza lasciarsi commuovere dall’incontro con Gesù che il Vescovo di Roma ci testimonia: da qui nasce l’unica vera riforma di cui abbiamo bisogno.
don Roberto Battaglia
assistente CL Rimini
La Chiesa continua a sorprenderci. Solo un anno fa, sembrava in grandissime difficoltà, assediata all’esterno da i media che denunciavano episodi imbarazzanti e incerta sul da farsi. Con molti fedeli sconcertati. L’elezione di papa Francesco ha ribaltato i termini della questione. Ha rilanciato con forza l’ispirazione del Concilio che chiedeva una Chiesa povera,attenta agli ultimi (alle periferie esistenziali e sociali), non rinchiusa nelle proprie sicurezze. Una Chiesa che si lascia guidare dalla Parola e che non teme di dichiarare le proprie infedeltà e insieme la propria fiducia nell’iniziativa di Dio misericordioso che chiama tutti a far parte del suo regno. Papa Francesco ci dice – e lo abbiamo sperimentato in un recente passato – che se la Chiesa si sente una fortezza assediata, tutta introversa, le sue comunità si ammalano e diventano preda di conflitti e di rivalità: la sua dimensione missionaria viene avvilita perché viene avvertita come mero proselitismo. L’annuncio della Parola di Dio in Gesù Cristo, testimoniata in una quotidianità non separata, la rende invece capace di stabilire legami forti con gli uomini e le donne di ogni cultura e di ogni religione. Soprattutto con i giovani,chiamati a vivere in una dura stagione della storia,bisognosi di dare senso, direzione, unità alle opere e ai giorni.
Piergiorgio Grassi
prof. Filosofia Religioni
Il 2013 passa alla storia, e non solo per la copertina di Time, come “l’anno di Papa Francesco”. Nessuno, credo, senta il bisogno di altre definizioni, colte o meno, sul Pontefice “che viene dalla fine del mondo”; tanto, forse tutto, è già stato detto e scritto, certamente meglio di quanto possa offrire io. L’unica cosa che posso fare, e che possieda un minimo di originalità, è confessare una debolezza tutta personale: sarà improprio, ma a me Papa Francesco ricorda in (quasi) tutto don Oreste Benzi. Nella parole fiammeggianti contro i compromessi e a favore della “rivoluzione del vangelo”. Nella coerenza tra le sue parole, spesso di rottura e rivoluzionarie, e i fatti concreti che compie. Nella capacità di trasmettere la fede per “trapianto vitale”, grazie al suo esempio quotidiano, e non temendo la “tentazione” per i nuovi media. Papa Francesco e don Oreste, due parabole di vita lontanissime ma gemelle nel promuovere una Chiesa delle origini, mettendo in discussione/crisi formalità consolidate, cercando ostinatamente e senza paura il contatto diretto con le persone, affrontando le verità più scomode e recandosi là dove gli altri non vanno, tra gli ultimi, in mezzo a loro, dalla loro parte. On the road again, per me e per tutti coloro i quali pensano sia la strada la navata centrale della Chiesa di tutti i tempi.
Stefano Vitali
Presidente Provincia di Rimini