Le vicende dei pastori di una comunità, da sempre, s’intrecciano con gli eventi della società a loro affidata. E ogni vescovo, come testimone della vita ecclesiale, nell’esercizio della sua funzione produce una documentazione la cui autenticità è garantita dal suo sigillo. È da questo presupposto che nasce l’originale ricerca dei riminesi Giuliano Zamagni e Angelo Turchini, che nella loro opera I vescovi di Rimini nel secondo millennio passano in rassegna gli stemmi e i profili di tutti i presuli che hanno guidato la chiesa riminese negli ultimi mille anni, aprendo così tante finestre sulla vita locale.
Lo studio si propone di esaminare l’araldica (ovvero la “scienza del blasone”) ecclesiastica, cioè quella particolare branca che si occupa degli stemmi degli ecclesiastici.
Nel caso degli stemmi vescovili, fino al XVII secolo, quasi tutti coloro che erano ordinati erano di nobile estrazione, e quindi avevano già uno stemma di famiglia. Ma in seguito cominciarono a diffondersi anche stemmi d’invenzione, che potevano includere figure di valore simbolico o teologico. Per questo l’araldica ecclesiastica esaminata nel testo di Zamagni e Turchini racchiude elementi di diritto, di fede, ma anche di tradizione, e gli stemmi cessano di essere orpelli per diventare strumenti fondamentali per ricostruire la storia di coloro che l’hanno adottato.
Tutti i blasoni ecclesiastici presentano degli elementi comuni, come il Cappello Prelatizio (o “galero”), che posto sulla sommità dello scudo convenzionalmente utilizzato negli stemmi, è l’elemento più caratterizzante di ogni altro. Si tratta di un cappello a tesa larga con due cordoni laterali da cui si apre una fioccatura di nappe, adottato dai prelati fin dal XIII secolo e indossato durante le funzioni solenni. Questo cappello prelatizio è anche utilizzato come elemento identificativo della gerarchia ecclesiastica e consente l’immediato riconoscimento del grado del titolare dello stemma grazie al colore e al numero delle nappe: negli stemmi dei vescovi, per esempio, il galero è verde (rosso in quello dei cardinali) e ha sei nappe.
Oltre al cappello prelatizio, che è l’insegna araldica ecclesiastica principale, spesso nelle insegne vescovili ci sono altri elementi caratterizzanti. I più comuni sono certamente la Mitria, il copricapo a forma semi-ovale in origine simbolo del Pontefice e dei cardinali, ma concesso anche ai vescovi a partire dal XI secolo; il Pastorale, bastone con la punta alta ricurva generalmente posta dietro o accanto allo scudo; e il Motto, usato negli stemmi vescovili più recenti e che esprime, in forma concisa e generalmente in latino, l’ideale di vita di chi lo ha scelto.
Dei 74 stemmi vescovili riminesi esaminati nel testo di Zamagni e Turchini, 18 presentano anche la figura del Leone, il più nobile degli animali, raffigurato rampante e generalmente espressione dell’appartenenza alla fazione guelfa. In quattro stemmi, invece, è rappresentata l’Aquila, uno degli animali simbolici più antico in araldica, manifestazione dell’appartenenza ai ghibellini. In molti casi, si tratta di stemmi “parlanti”, in cui la figura posta all’interno dello scudo richiama il nome del titolare: così all’interno del blasone di Giovanni Battista Castelli, vescovo di Rimini dal 1574 al 1583, c’è un castello merlato, in quello di mons. Vincenzo Torfanini (che guidò la Diocesi di Rimini dal 1584-1591) ci sono due tori (Tor-fanini) e in quello di vescovo Giulio Cesare Salicini (1591-1606) c’è un albero di salice, rappresentato però con un’oculatezza in più, perché la sua forma richiama simbolicamente anche una croce.
L’ultimo stemma episcopale esaminato nel libro (nella foto) è quello di monsignor Francesco Lambiasi, autore anche della prefazione del volume, in cui scrive: “Quando fui nominato vescovo di Anagni-Alatri mi fu detto che, tra le altre cose, avrei dovuto pensare anche di adottare uno stemma episcopale. Risposi che al momento c’erano cose che ritenevo più importanti e urgenti, e che comunque il mio stemma non l’avrei pensato a tavolino. Mi sentivo in quei giorni come chiamato a buttarmi in quella nuova avventura, senza alcuna rete di protezione (…) e Madre Alessandra Macajone, Badessa nel monastero delle Agostiniane, mi ricordò di Giovanni Battista Montini, il quale, all’indomani dell’elezione a vescovo di Roma, scrisse nel suo diario: «Chissà perché il Signore ha voluto affidare il timone della barca di Pietro proprio a me?! Eppure mi sento così limitato e inadeguato. Ma forse ciò è avvenuto proprio perché così si capisca bene che è lui a guidare la sua Chiesa, e non io!». Fu un lampo: il motto da me scelto sarebbe stato In Nomine Patris, e l’immagine centrale dello stemma, quella di una barca, secondo il modello di uno dei simboli paleocristiani più diffusi, quello della Chiesa come imbarcazione in mare aperto”.
Genny Bronzetti