Felice Falcioni ne è un esempio. Arrivò col padre in cerca di fortuna, il quale acquistò un podere e aprì la porta all’emigrazione marchigiana nel riminese.
Con il superamento della mezzadria molte famiglie, in particolare le più numerose ed intraprendenti si misero a cercare poderi più fertili (terreni, li chiamavano nelle Marche), di ampie dimensioni, possibilmente pianeggianti. A “cavallo” di cambiali e pensieri, “intere famiglie si trasferirono allora dalle Marche, – annota Ermes Venturini – in particolare dalle Basse Marche, dall’anconetano ma anche da zone più prossime alla Romagna quali il Montefeltro e il Pesarese, e vennero in Romagna, nel riminese e nel santarcangiolese, come a Morciano e a Bellaria”. L’apporto di queste famiglie negli anni 50/60 del secolo scorso contribuì a non far diventare i territori riminesi delle lande desolate. Su questo tema ha sviluppato una interessante ricerca Pietroneno Capitani (Bussavamo coi piedi. Dall’entroterra ascolano alla Romagna), ma il terreno è “dissodato” pure da Maria Grazia Bravetti nel suo ultimo lavoro, Radici, pubblicato dall’editore riminese Panozzo. Anche se da un’ottica differente, come sintetizza il sottotitolo del volume: Vita e mangiari di un tempo nella campagna marchigiana.
In queste Radici, Bravetti Magnoni va alla ricerca curiosa e attenta di una tradizione orale, antica e solenne, sulla campagna dei vicini di casa marchigiani. L’attenzione per il mondo agricolo accompagna da sempre la ricerca della studiosa riminese, “fiorita” appassionatamente in precedenti volumi come La campagna appena ieri, Giocare una volta e La cucina dell’arzdora, come in tanti articoli pubblicati anche dal settimanale ilPonte. Chiariamo subito, e per sempre: la curiosità persino invasiva della Bravetti Magnoni per i fatti del mondo agricolo non è l’elegia dei bei tempi antichi, quanto l’avvertimento ai lettori odierni dell’oblio che investe un passato recentissimo. “Quello che siamo, moltissimo lo dobbiamo alla cultura rurale” aggiunge il presidente di Cia Rimini, Valter Bezzi. Il quale mette in guardia. “Troppo presto perdiamo la memoria, il nostro territorio”.
Oltre a tanti piatti tipici e metodi di coltura, Radici permette un gustoso confronto tra la tradizione marchigiana e quella ”marchignola” e riminese, che sconfina nell’antropologia e negli stili di vita. Se nel riminese le redini di casa sono mantenute dall’arzdora, nelle Marche il compito attiene al vergaro. “Qui la cucina è normalmente di dimensioni più importanti, ma per entrare in casa c’era la scala esterna praticamente inesistente in Romagna. – spiega l’Autrice – La piada è il cibo «nazionale» romagnolo mentre nelle Marche si preparava la polenta, anche tre volte il giorno. E il pane lo si faceva perlomeno tutti i sabati”.
Frutto di ricerche lunghe e faticose,Radici ci proietta in un mondo, quello della campagna. Quella del dopoguerra è giunta ormai al capolinea. Con più di un cruccio. La cucina marchigiana, ad esempio, appare molto ricca, anche quando si tratta di polente. Ma gli emigranti l’hanno diffusa in Romagna? “In realtà non c’è stato scambio, gli emigranti han tenuto le tradizioni culinarie a casa loro, e qui in Romagna mangiano solo e forse sempre romagnolo. Anni e anni fa scoprii una trattoria in piena campagna, a San Mauro Pascoli lungo la strada «La Cagnona». Dalla famosa Caterina tutti venivano dalle campagne di Ascoli Piceno. Da loro di marchigiano c’era solo il famoso fritto misto, piatto importante della cucina marchigiana non campagnola, tutto il resto era romagnolo. Neanche un dolce tra i tanti delle Marche. La conclusione? La Romagna avvince, anche in cucina. Però, se vai nelle Marche, e non sbagli trattoria, rimani poi anche tu affascinato”. A pancia piena e magari trattenendo, qua e là intatte, le memorie.
Paolo Guiducci