La Liturgia romana, più che di parole, è fatta di segni e di gesti. Sobria, asciutta, semplice, ma nello stesso tempo nobile e solenne. Essa celebra proprio nella “nostra lingua”: fatti e non parole!
Durante la Liturgia Eucaristica si potrebbe infatti togliere l’audio e fissare i segni dell’altare e i gesti del celebrante e dell’assemblea per capire ciò che sta accadendo e parteciparvi con fede: le mani alzate del sacerdote e poi stese sul pane e sul vino; il chinarsi e l’inginocchiarsi, l’alzarsi e il sedersi; l’abbraccio di pace, le mani giunte; e poi i segni della croce, la luce, il profumo dell’incenso, le vesti liturgiche con i colori dei misteri celebrati, i lini e i vasi sacri.
Fatti e non parole!
Nella Presentazione dei doni, dopo la di fronte al pane e al vino offerti sull’altare e pronunciare sottovoce una preghiera (Ordo Generale Messale Romano, 143).
Perché questo silenzio? Perché non dare ai fedeli la possibilità di udire e di partecipare a quella preghiera? Semplicemente perché il gesto già dice tutto.
L’uomo, infatti, s’inchina a una persona (al re, al maestro, all’eroe) o a un simbolo (la bandiera, il monumento a chi ha dato la vita, la croce) per esprimere il rispetto, la riverenza e l’onore che nutre verso di essi, perché li riconosce depositari di significati che “danno vita alla sua vita”. Nell’inchinarsi profondo, ampio, flessuoso e solenne, come deve essere quello del sacerdote, l’uomo esprime quindi anche la sua accoglienza e appartenenza a ciò che essi rappresentano e la consegna fiduciosa di sé.
La Liturgia romana ha fatto proprio questo gesto e chiede al sacerdote di compierlo di fronte all’altare quando vi sale e prima di lasciarlo, ma anche prima di recarsi a proclamare il Vangelo e dopo la benedizione delle offerte (pane e vino); lo chiede all’assemblea durante la professione del Credo (alle parole E per opera dello Spirito Santo); lo chiede ad entrambi durante la consacrazione; lo chiede al diacono mentre chiede la benedizione per proclamare il Vangelo (OGMR 275.43.49.185.132.175.137).
Nella Presentazione delle offerte, il celebrante s’inchina a nome di tutta l’assemblea e con questo semplice gesto dice una cosa altrettanto semplice: è il momento di piegare profondamente il collo, con le spalle e perfino la schiena; è il momento cioè di piegare l’orgoglio e di entrare con l’offerta di noi stessi in ciò che ci supera: il sacrificio di Cristo, che «spogliò se stesso assumendo la condizione di servo… e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» Fil 2,7-8.
È il momento, insomma, di rendere gradito a Dio il sacrificio di noi stessi, che sta per unirsi a quello di Cristo, e la cosa non è affatto semplice, perché anche Dio – come diceva Madre Teresa di Calcutta – è uno Sposo che a volte sa essere molto esigente!
Vi è un’unica nostra caratteristica che può far gioire Dio (il Quale non ha certo bisogno di noi!), perché con essa gli diamo modo di compiere la sua Opera, ossia benedirci con la sua stessa Vita, donarci il Figlio: un cuore umile e pentito. «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio – recita il Salmo – un cuore affranto e umiliato non disprezzi» (50,19).
Fu per questo che il pubblicano, colui che nel tempio non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, «tornò a casa giustificato, a differenza dell’altro [il fariseo], perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14). Ne sa qualcosa la madre di Gesù (Lc 1,48).
Quando vediamo il sacerdote inchinarsi è quindi il momento di rendere la nostra offerta, il nostro cuore simile, “omogeneo” a quello di Cristo, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29) per essere offerta, con Lui e in Lui, gradita a Dio, perché Cristo ora si abbassa veramente, «fino alla morte di croce».
Cosa dirà mai allora il celebrante sottovoce? Nient’altro che non sia già espresso eloquentemente dal gesto: «Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te», dove per nostro sacrificio s’intende quello di Cristo, nel quale sia il sacerdote, sia i fedeli vi possono entrare solo a una condizione: con cuore «umile e pentito».
Questa breve preghiera è tratta dalla Benedizione di Azaria, uno dei tre giovani gettati nella fornace dal re Nabucodonosor, dalle cui fiamme però uscirono illesi: «Benedetto sei tu Signore, Dio dei nostri padri… Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito» (Dn, 3,26.39-40).
Entrata piuttosto tardi nella Liturgia Eucaristica (IX sec.), ha la funzione di unire i doni (pane e vino) e l’offerta di sé che fanno il sacerdote e i fedeli e, questi, al sacrificio di Cristo che sta per compiersi.
Quest’unica offerta sarà poi incensata e definitivamente presentata al Padre: Pregate fratelli, perché il mio e vostro sacrificio… (OGMR 75-77; 144-146).
Veniamo all’applicatio ad vitam. Non è raro partecipare a Sante Messe in cui il gesto dell’inchinarsi (preghiera compresa) è saltato a piè pari per precipitarsi a “lavarsi le mani”… non confondiamo i segni, per favore!
Elisabetta Casadei
* Le catechesi liturgiche si tengono ogni domenica in Cattedrale alle 10.50 (prima della Messa).