I giochi da ragazzi sono belli finché non ci si mettono gli adulti. Emblematico il caso dei campi da calcio di Rimini: quale che sia la causa, il risultato è che ci sono dei bambini che su dei campi ci possono giocare e altri no senza che probabilmente nessuno di loro abbia capito perché. Ma basta accendere la tv per ascoltare, al termine di uno spot di un’agenzia di scommesse, sconcertanti frasi in stile pacchetto di sigarette: “il gioco è vietato ai minori di 18 anni”, ”“il gioco può creare dipendenze patologiche””. Cosa c’entra il gioco con l’illusione creata ad arte (e col beneplacito statale) che con le scommesse si possa vincere facile? Associare la parola “gioco” a qualcosa che non va bene per i più piccoli trasmette poi un senso quantomeno di tristezza. Cosa mai potrà pensare un bambino sentendo le chiose di quegli spot? Che il gioco, parte fondamentale della sua giornata, è una cosa brutta e cattiva? Che Babbo Natale, il più noto dispensatore di giochi, è un malavitoso? Gli inglesi hanno due termini per distinguere il gioco quello vero (play) da quello legato all’azzardo (gamble). Usiamo tanti inglesismi a sproposito: lo stesso “bet” per non dire ”scommesse”, che fa brutto. Perché non usarne uno quando serve? E per evitare l’assurda immagine del gioco che nuoce gravemente alla salute.