Sono passati 6 anni dalla morte di don Oreste. Si sono fatti incontri, pubblicati libri, l’anno scorso persino un convegno. Sappiamo tutto di lui o c’è ancora qualcosa da scoprire?
«Pur avendo lui girato molto, mi rendo conto che troppo pochi lo hanno conosciuto, ed è nostro ora il compito di farlo conoscere ai più. Soprattutto la vita, i fatti, come viveva, chi incontrava. Un dato storico che poi apre al grande tesoro della sua spiritualità: la preghiera, l’incontro con i poveri, la sete della giustizia, l’andare nelle periferie esistenziali… Sono convinto che se Papa Francesco verrà a conoscenza di questa figura e del carisma da lui nato ne rimarrà affascinato».
Tu giri continuamente per incontrare le Comunità in Italia e in tutto il mondo. C’è vitalità o c’è il rischio di invecchiare venendo meno la spinta diretta del fondatore?
«I frutti sono evidenti e si moltiplicano come una pianta rigogliosa. Arrivano giovani, famiglie, professionisti che chiedono di conoscere Cristo nella condivisione con i poveri. Le opere poi sono evidenti: queste famiglie aperte ad accogliere figli disabili, le cooperative, le comunità terapeutiche, le case di preghiera, la presenza nel mondo politico, all’Onu per essere voce di chi non ha voce, con le donne schiavizzate, con i senza dimora, negli ospedali per aiutare le mamme a dire sì alla vita… Come ogni pianta, però, ogni tanto deve essere concimata e il concime per noi è la vita di fede, di fraternità. Ogni tanto poi c’è bisogno di potature: bisogna avere il coraggio della verità e di non essere autoreferenziali. La garanzia ci è data dalla nostra vita nella Chiesa, dai nostri Pastori con cui vogliamo camminare in tutto il mondo».
Quali sfide vedi per la Comunità oggi?
«Essere radicati nelle origini, nel fondamento che è Cristo povero, servo, sofferente. Allo stesso tempo noi siamo una comunità missionaria e vivremo in quanto siamo capaci di rispondere continuamente “sì” alle chiamate del Signore. Per questo siamo già partiti per la missione in Nepal, stiamo per avviare una presenza di accoglienza per i profughi minori non accompagni a Patrasso, in Grecia, e stiamo operando per aprire una casa famiglia a Bagdad».
Quali emergenze a livello ecclesiale e sociale?
«Io penso che la Chiesa oggi debba stare molto vicina alle famiglie, che a volte faticano, soprattutto nelle relazioni di coppia e genitoriali. La famiglia è il futuro dell’umanità e il nostro carisma, che fa diventare la famiglia aperta, accogliente verso chi è solo, abbandonato, diventa un segno stupendo».
Progetti a breve termine?
«Abbiamo molti progetti, anche innovativi, come l’Ambulatorio medico gratuito per i più poveri, l’Albergo sociale inaugurato a Rimini, una nuova Capanna di Betlemme a Forlì. La Comunità è un cantiere sempre aperto. L’importante è essere in ascolto del Signore che ci parla e dire il nostro “sì”».
Alessio Zamboni