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Racconti dal mare…

Sono le 21.00 del13 marzo 1955. A Viserbella alcuni cittadini, riuniti presso la Pensione Conca d’Oro per costituire un’Associazione Culturale Sportiva, approvano all’unanimità “null’altro essendovi da deliberare” di chiamarla E’ Scaion (nome dell’attrezzo in ferro usato per la pesca delle vongole). L’Adriatico, dai bassi fondali sabbiosi, ha praticato una pesca costiera con imbarcazioni a vela e a remi, tra queste le battane di cui si conservano esemplari nel cortile del Museo della Piccola Pesca e delle Conchiglie di Viserbella. Non meno diffuse la pesca da raccolta, praticata lungo la riva, e la pesca delle vongole con l’ausilio di un ferro da dragaggio manovrato manualmente dal pescatore. Le imbarcazioni più grandi (barchetti, paranze, bragozzi, lancioni) praticavano anche la pesca pelagica (costiera e d’altura) con reti a strascico (nell’Adriatico la tartana), sfogliera e gabbie. Per queste attività, risorsa primaria di sostentamento di intere comunità della zona, l’avvento della motorizzazione e industrializzazione del settore ha determinato un radicale mutamento dell’ambiente e delle tecniche di pescaggio. Il patrimonio in estinzione, custodito nel museo viserbellese grazie all’Associazione CulturaleE’ Scaion, vanta un’importante collezione di conchiglie ed una di barche, attrezzi da pesca e cantieristica navale, elementi per l’armo delle barche, oggetti di uso quotidiano, fotografie, filmati. L’interessante collezione di conchiglie del mediterraneo, nata negli anni ‘60 grazie al collezionista Andrea Capici di Ancona, conta esemplari provenienti da diverse aree del bacino mediterraneo e diverse specie classificate dall’Istituto di Zoologia dell’Università degli Studi di Bologna, che fanno del Museo luogo di riferimento per appassionati e studiosi. Alla collezione completa, acquistata nel 2000 grazie ad un finanziamento della Provincia, si affianca una più recente sezione subaquea avente come fiore all’occhiello un fucile a molla progettato da Raimondo Bucher (pioniere dell’immersione profonda in apnea e della fotocinematografia subacquea, due volte recordman di profondità (1949/1952). Nel 2008 la torinese Rita Ivillia ha donato un’intera collezione di fossili (su desiderio del marito Luigi Rosa). Altrettanto importanti sono l’archivio fotografico ed i filmati d’epoca che ricostruiscono la vita di Viserbella, lentamente trasformata da borgo di pescatori in luogo balneare senza cancellare le radici ma rivolgendosi al mare, fonte di sostentamento e crescita sociale. Le numerose visite al Museo da parte delle scolaresche di Rimini, Santarcangelo, Mondaino, Spadarolo, Bertola (RM), Roma hanno attivato lavori collettivi e spettacoli attinenti alla vita di mare.

Vita da pescatore
A parlarci del pescatore Giuseppe Mussoni, originario di Bellaria e capostipite d’una famiglia con molti maschi, è il bisnipote Erio Mussoni. Rievocando la famiglia marinara, ricorda anche le dune distrutte per costruire le case, la sabbia portata via con i carretti, i lotti di terreno che si estendevano dalla spiaggia alla ferrovia e venivano lavorati a vigneti, frutteti e orto. Erio Mussoni ricorda che il bisnonno Giuseppe (come gran parte degli uomini di mare anche agricoltore e ortolano a fine stagione) fece il pescatore fino a 36 anni quando il figlio Silvano (del ‘20) iniziò ad andare in mare. Dopo essersi costruito prima una casa di due piani (differentemente da quelle a un piano degli altri pescatori) Giuseppe Mussoni poté permettersi una villetta, tuttora esistente vicino alla spiaggia. I pescatori, cui la Capitaneria di Porto aveva assegnato zone individuali, possedevano inizialmente una battana e un battarino per calare i cagolli (reti per catturare le anguille), le reti da imbrocco per il buon pesce di fondo (non il turchino). La pesca a tratta, che utilizzava una rete lunga anche 600 metri, necessitava di 10/12 persone che la tirassero a riva dopo il pescato (quella dei Mussoni era sui 350 metri). Ci si pescava il pesce “turchino” (sarde, sardelle, sardoni) e tutto quel che si avvicinava maggiormente a riva. Si mettevano le corde (resta) alla rete, trattenuta da un bastone (mazzetta) e si cominciava a tirare e stringere. Nelle notti d’inverno i pescatori buttavano a riva la caparola, nei punti dove i pesci venivano trascinati dal mare (la scaduda), e si spogliavano per evitare predatori come i delfini, nonostante il rischio d’essere multati dalla Finanza perché era proibito stare nudi (anche i chioggiotti si spogliavano). I cagolli li calavano quando c’erano mare alto e passaggio di anguille. I delfini, un tempo numerosi nelle acque costiere, seguivano i pesci verso riva e per non perderli si buttavano dentro le reti di imbrocco provocando buchi così disastrosi da indurre le autorità marittime a mettere un premio per ogni delfino ucciso: “È istituito un premio di 50 Lire a qualsiasi cittadino italiano che, entro il 31 dicembre 1939, catturi ed uccida, portandolo poi a terra, un delfino. Il premio è elevato a Lire 100 quando si tratti di femmina, durante il periodo di riproduzione…”. Di Agostino Imolesi, Brighèla, ricordato come il più “bravo cacciatore di delfini”, si favoleggiava che per difendere le reti avesse ucciso a pugnalate centinaia di cetacei. Nella leggenda marinara entra anche “e gob de Sevi”, il gobbo del Savio, delfino astuto nel rubare il pesce per anni e fuggire veloce e “sorridente” in barba ai pescatori. Nando Foschi, Bodo, testimonia d’aver visto piangere i delfini durante la cattura. I ricordi di Erio Mussoni rivanno anche alla nonna Zaira Polazzi, quando durante la Seconda Guerra Mondiale passò capo barca sostituendosi nella pesca al marito militare a Forlì ed al figlio maggiore Alessandro (nato nel 1898) imbarcato su un cacciatorpediniere Danoli, scorta con altre navi da guerra ai convogli portatori di rifornimenti in Africa (Napoli / Tripoli).

La pesca e il motore
Dopo la guerra e l’uscita dei motori Deuz, poi dei Ferman, poi degli italiani vm, i metodi di pesca cambiarono, la tratta fu proibita fino a sparire del tutto come i cogolli. “Durante la Seconda guerra mondiale – precisa Mussoni – vigeva il divieto di pesca ed i tedeschi disseminarono la zona di mine antisbarco (cavalletti). Molti furono i morti, poi i pescatori s’ingegnarono: essendo il detonatore in cima al cavalletto lo toccavano al centro, mollavano pian piano il ferro e lo disincagliavano”. Le vongole si pescavano anche di notte col verricello a mano manovrato da due persone, con tartane, rabbi e gabbie per seppie. Il pesce latterino, acquadella, si pescava con lo spuntello, una rete molto fitta lunga 20 metri. La moglie del pescatore vendeva il pescato nella Piazzetta delle Poverazze a Rimini, ai privati e in seguito al mercato coperto. Molti quintali di vongole, purazi, quasi sempre in eccedenza, finivano a Riccione da Amati che le inscatolava per venderle all’estero. “La Cooperativa, formata di sei barche, pescava e vendeva e l’incasso, messo giornalmente su un tavolo, si divideva in parti: tre per il proprietario, una per ciacun pescatore. I calcoli li facevamo mia moglie Giulia Bartolucci ed io, allora studenti alle medie”.
I ricordi non tralasciano i genitori di Bruna Donati (nonna di Giulia Bartolucci Mussoni) mezzadri e (come i nonni originari di Coriano e San Clemente) mai stati marinai. Divenuto anziano, il nonno Gioacchino Bartolucci (padre di Giuseppe) costruì reti di filo di ferro, spranga, per chiudere i ferri da vongole e cestoni di vimini per gli ortolani. “Quando il nonno e la nonna Vincenza Baratti uscirono dalla famiglia originaria e si stabilirono a Viserbella, il padre di mia nonna (silenzioso in casa, divertente fuori) acquistò un terreno e vi costruì una casa a un piano” precisa la signora Giuliana. “Pescatore fino alla morte (1971), d’estate è stato anche bagnino. Di mio nonno, con cui ho vissuto moltissimo, ho un gran bel ricordo: è lui che mi ha insegnato a studiare e persino a fare la calza, cosa di cui andava orgoglioso”.

Maria Pia Luzi