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L’uranio che uccide

È il dicembre del 2012 quando sui giornali locali e nei principali siti d’informazione della provincia si comincia ad associare Rimini alle morti militari per uranio impoverito. Le notizie arrivano alla spicciolata e si susseguono sino a febbraio inoltrato. Bisogna aspettare la primavera per avere chiaro perché la capitale del divertimento italiano sia diventata protagonista nazionale di una faccenda che appare, agli occhi dei più, lontanissima. Morti per uranio impoverito, infatti, fa venire in mente la guerra e i documentari tv che mostrano territori distrutti, la Jugoslavia sventrata, il Kosovo in macerie e l’immancabile foto dei militari sorridenti accanto ai carri armati. “Il souvenir” la chiamano in gergo. Rimini vanta una radicata tradizione di militari “di stanza” in città. Caserme come la Giulio Cesare (Esercito) e reparti come il VII Vega (Aeronautica militare) si sono affiancati ai professionisti del reparto Sar (Aeronautica) che con i loro elicotteri HH-3F svolgevano compiti di salvataggio ma anche trasporto di organi. Dal 2010 il Sar è andato via da Miramare per stanziarsi a Cervia-Pisignano, ma prima di questo trasferimento decine di riminesi d’adozione hanno fatto missioni in Somalia, Kosovo, Jugoslavia e Afganistan. In realtà tutte le caserme militari del riminese hanno prestato forze alle missioni di pace che negli ultimi 20 anni hanno coinvolto l’Italia e l’Onu. L’Osservatorio Militare nazionale ha diffuso dati che parlano di 305 morti accertati con causa legata all’esposizione ad uranio impoverito e alcuni di questi sono partiti proprio dalle nostre basi.
Paolo Marchi, 50 anni, muore per un tumore al pancreas lo scorso dicembre. Viveva da anni a Verona ma quando partì per metter pace in Bosnia e Kosovo era a Rimini. La morte nel 2010 di Giovanni Mancuso, in missione a Nassirya, viene fuori poco tempo dopo, così come la denuncia della famiglia. Nasce l’inchiesta.
Domenico Leggiero, maresciallo, ex pilota, presta servizio all’Osservatorio militare, da tempo si batte per far emergere la verità su centinaia di casi di morti accertate da uranio impoverito, ma soprattutto per denunciare lo stato di isolamento nel quale sono stati lasciati molti suoi colleghi nel momento della malattia. “Sono pronto a consegnare il dischetto contenente tutti i nomi al magistrato che me ne farà richiesta. Si tratta di un elenco ufficiale che mi è stato fornito dallo Stato Maggiore della Difesa”. Una dichiarazione che è un atto d’accusa nei confronti del sistema militare che definisce omertoso ma anche una richiesta d’attenzione nei confronti della magistratura. Davide Ercolani, sostituto procuratore a Rimini è andato a chiedere lumi su questa lista, l’ha acquisita insieme alle cartelle cliniche di tre militari malati che hanno partecipato a missioni all’estero e che potrebbero essere venuti a contatto con l’uranio impoverito. Nelle intenzioni del magistrato riminese anche l’idea di costituire una commissione di esperti per fare verifiche e accertamenti e sondare la disponibilità delle famiglie per riesumare i corpi di possibili vittime. La lista di Leggiero sarebbe ferma al 2007 ed è entrata ufficialmente nel fascicolo dell’inchiesta riminese (che ha collaborato anche con i colleghi di Padova che operano sullo stesso filone).
In Procura cominciano ad arrivare gli esposti. Nel mese di marzo erano 5 e a luglio se ne aggiunge un sesto, quello del militare del VII Vega che si è ammalato dopo aver partecipato alle missioni di pace.
Cartelle cliniche a parte Ercolani può contare anche sugli atti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta che approfondisce il legame tra l’esposizione e l’uso di armi ad uranio impoverito con il sopraggiungere e lo svilupparsi di alcune forme tumorali.
Capo d’accusa: omicidio colposo e omessa esecuzione di un incarico, riconducibile all’articolo 117 del codice penale militare di pace. Ma siamo sicuri che sia solo uranio impoverito? La Commissione d’Inchiesta Parlamentare tira fuori anche la possibilità del coinvolgimento, nell’ammalarsi dei militari, della somministrazione del mix dei vaccini (vedi box sopra) inoculato ai militari senza che vengano informati del contenuto delle fiale e senza che si facciano esami e anamnesi preliminari, caso per caso. Una faccenda che va ancora approfondita.

Angela De Rubeis