Il ritorno di Wolverine, il più carismatico del gruppo dei mutanti X-Men (apparve la prima volta nel 1974 sulle pagine di Hulk ed ha raccolto sempre più fans), dopo il film “solo” diretto da Gavin Hood (oltre alle apparizioni nei primi tre film collettivi dedicati ai mutanti Marvel), è nel segno della sua storia più rappresentativa, la mini serie Wolverine del 1982 da cui è tratto Wolverine L’immortale, diretto da James Mangold che aveva già incrociato il protagonista Hugh Jackman in Kate & Leopold. L’artigliato super eroe arriva in Giappone su invito di una vecchia conoscenza, Shingen, a cui aveva salvato la vita nel cataclisma atomico di Nagasaki. L’amico morente lo vuole ricompensare donandogli una vita mortale ma dietro al regalo si nasconde una storia che riserverà non poche sorprese. Nella terra del Sol Levante l’eroe conosce la figlia di Shingen, Mariko, da difendere con tutte le sue forze.
I tormenti di Wolverine animano pagine più melodrammatiche (in sogno riceve spesso la visita dell’amata Jane Grey, interpretata da Famke Jannsen), di contraltare alle scene più movimentate come il combattimento su un “treno proiettile”. Mangold coglie bene l’interiorità lacerata del mutante in cerca di umanità anche a costo di perdere il potere. Ma gli eroi hanno la pellaccia dura e Logan-Wolverine si accorge che è meglio una vita con gli artigli che un’umanità debole, soprattutto se c’è da difendere una ragazza verso la quale sboccia del tenero.
Se qualcuno pensa ad un “morbido” Wolverine si sbaglia di grosso: oltre ai combattimenti con i ninja c’è anche da affrontare la micidiale Viper ed un nemico di colossali proporzioni. Spettacolo vivace e ben curato e con un protagonista che si è impossessato efficacemente dell ‘Uomo X” con artigli di adamantio.
Il Cinecittà di Paolo Pagliarani