Caro Valderico,
ho saputo del tuo commiato improvviso da Paolo Guiducci, e puoi immaginare (assieme alla malinconia) quante cose mi sono venute subito in mente del nostro rapporto, fatto soprattutto di telefonate (le tue) impreviste quanto emozionanti: “Eeeeeeeeenio!” e la tua voce un po’ roca fuoriusciva dalla cornetta e mi riempiva ogni volta lo studio di allegria e di luce. Poi si parlava di poesia. Della tua poco, non amavi citarti. Mi ricordavi, sovente, senza che fosse un rimprovero, ma con dolcezza (me ne vergogno) di non avermi visto tra il pubblico a certe serate di poesia dialettale di cui tu eri stato l’attore richiestissimo.
Ti confesso solo ora, che avevo messo insieme negli ultimi tempi, qualche appunto, con l’idea di scrivere qualcosa di più pensato sulla tua poesia. Ma tu mi conosci, sono un plantigrado irrecuperabile. Volevo cominciare da quel tuo (ora nostro, me lo concedi?) <+cors>Burdell a tourni indri <+testo>(1998) nel dialetto di Torre Pedrera, che Piergiorgio Pazzini aveva raccolto con la complicità del nostro comune amico, Gualtiero De Santi. Finalmente! Un libro di cui fosti giustamente orgoglioso. Ed io con te, il riconoscimento di un poeta autentico, finalmente raccolto tutto insieme e sottratto alla precarietà dei quadernetti che stampavi con le tue mani per donarli agli amici. Non so se la “tenerezza” sia una categoria critica o estetica, ma non fa nulla tra noi ci capiamo. La tua, è una poesia della tenerezza. E il tuo dialetto, la voce misurata, paziente, mai sopra le righe,che racconta di una umanità un po’ spaesata, dolente certo, ma mai vinta. Tu lo sai, non sono solo un critico laureato, ma un lettore un tempo onnivoro, oggi con gli anni che incombono, inevitabilmente selettivo. Col tempo insomma vado sul sicuro anche perché la stagione poetica del dialetto romagnolo, mi appare oggi un po’ sovraccarica di intelligenza di tecnica, anche se sempre affascinante. Vado da tempo rileggendo le tue cose, con un’attenzione diversa, da quella che tu ti ostini con modestia a richiedere. Ti ostini a definirti solo una dicitore della cose altrui, una voce in prestito. Ma esisterebbe oggi una poesia in dialetto romagnolo senza una voce, la tua voce? Ne dubito. Quella lingua che tu conosci, che ti appartiene antropologicamente, non è solo la lingua della memoria, è la forma di un un mondo ancora straordinariamente ricco,coinvolgente, sapiente.
E lo spartito poetico, tuo e degli amici, con le parole misteriose e vive del dialetto, che nessuna traduzione italiana può onestamente rendere adeguatamente, ha avuto bisogno di una voce come la tua che sapesse tirar fuori con piccoli scarti, quasi impercettibili, l’incommensurabile varietà di toni, di sfumature,di note alte, basse, medie, l’infinita verità delle cose, della vita.
Anche quando fai poesia “alla maniera di”, alla maniera di Villa per esempio, è Valderico a parlare. Come nelle zirudelle, memorabile la prima (è del 1937 e avevi 16 anni!) Al Pumiduredi/i>. È la tua maniera, solo la tua. La cronaca come in Villa irrompe nelle tue zitrudelle con forza, ma in te non c’è giudizio, ideologia, c’è solo un umanissimo sentimento delle cose. Così va il mondo dici, ma non lamentiamoci, non nascondiamoci, usciamo fuori, stiamo insieme,vicini vicini per scaldarci il cuore.
E il sentimento del tempo, così caro alla poesia dialettale di eri? Come si fa a raccontarlo senza troppa malinconia e senza lacrimucce e magari con qualche leggera incrinatura della voce. Tu ci provi e ci riesci. A proposito, ho riascoltato E’ temp, ritrovata nella raccolta recentissima dell’amico Pazzini (2006). L’ho ascoltata nel CD che raccoglie per fortuna la tua voce. Migliore dichiarazione d’amore alla vita e alla poesia non potevi scrivere, con quei quei versi finali che lasciano il segno, tanto sono ironici e teneri.
E’ temp l’è un criminael! / Nu s’ fèma mazae da e’ temp! / Ristéma cumè aloura! / La chémpa per quèst, l’ilusioun! (Il tempo è un criminale!/ Non facciamoci uccidere dal tempo! / Restiamo come allora! / Vive per questo l’illusione!).
No caro Valderico, tu non ti sei allontanato,nessun commiato, tu resti qui nel nostro tempo,con la tua voce, la tua poesia. Aspetto ora la tua telefonata…
Ennio Grassi