Era proprio il famoso cardinal Ratzinger quel pretino modesto e gentile, incontrato per caso in piazza San Pietro e che si era reso disponibilissimo a rispondere alle domande di Roberta Silverio per Bottega Video, quasi fosse l’inviata della BBC. Erano i giorni del pellegrinaggio diocesano a Roma in occasione dell’Anno Santo. Da quel momento in me crollò l’immagine, che i media stavano dando al mondo, del “cardinale dell’ex santo uffizio”, mastino senza cuore in difesa della vecchia teologia.
E proprio l’umiltà e la disponibilità sono oggi il segno più evidente che leggiamo nell’inattesa, ma meditata, rinuncia al papato di Benedetto XVI. In un tempo in cui chi ha potere s’incolla alla poltrona dove è assiso, sapere che la massima autorità religiosa del mondo rinuncia, perché consapevole di non poter più “esercitare in modo adeguato il ministero” cui è stato chiamato, la dice lunga sull’idea che ha del proprio compito. E questo in un momento in cui ha piena coscienza di sé, delle sue forze e del suo ruolo. Del resto il termine “ministero” dal latino minister, (a sua volta derivato da minus, “meno”) indica una persona subordinata ad un’altra, a “servizio” di un compito che gli è stato affidato e a cui lui deve rispondere. Il Papa infatti non un imperatore o un re, ma il servitore della Parola che gli è stata affidata da Gesù per la Chiesa e il Mondo.
Qualcuno è intervenuto denunciando in questa scelta una caduta della sacralità del papato, quasi che l’umanizzazione che una vicenda del genere certamente evidenzia, tolga al ministero petrino quella “alterità” che rappresenta, dimenticando che il cristianesimo è segnato dall’incarnazione del Dio che si fa uomo, nasce bambino e ama l’uomo con tutto il suo limite e in questo lo salva.
Non è neppure vero che papa Ratzinger fugga dalle sue responsabilità. Nella intervista ormai famosa a Peter Seewald, che lo interrogava in merito all’ipotesi di dimissioni, con chiarezza rispondeva: “quando il pericolo è grande non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando non ce la si fa più, ma non si può scappare nel momento del pericolo”. I suoi sette anni di pontificato sono certamente stati difficili, fonti di grandi sofferenze anche personali, ma non è scappato di fronte alla drammatica ferita della pedofilia, alle difficoltà del dialogo ecumenico, al caso del vescovo lefebvriano Richard Williamson negazionista della Shoah, né di fronte a media che spesso hanno usato strumentalmente solo parti dei suoi discorsi, provocando dibattiti assurdi.
Giovanni tonelli