Poche parole astratte, ma molte storie reali nell’incontro Come due stelle nel mare: i minori stranieri non accompagnati tra sfide e opportunità educative, giornata formativa per insegnanti, educatori e operatori del sociale promossa dalla Fondazione Enaip “Zavatta”, dall’Associazione Zavatta, dalle Acli provinciali e dalla Fondazione San Giuseppe. Ospiti due giornalisti “indignati” che hanno conosciuto in prima persona alcuni di quei ragazzi, spesso giovanissimi, che si mettono in viaggio da terre lontane verso il nostro paese. Forse è per questo che preferiscono mettere da parte il linguaggio tecnico e burocratico, per parlare, invece, di persone e di incontri.
La storia di Akmed e dei suoi amici. La prima storia ce la racconta la giornalista Carlotta Mismetti Capua attraverso le parole del suo libro Come due stelle nel mare (Piemme, 2011). Immaginiamo un autobus che attraversa le vie di Roma, in una serata di pioggia di quattro anni fa. Su quell’autobus pieno Carlotta nota uno spazio vuoto, che già da solo dice tutto: è lo spazio di pregiudizio e di sospetto che, quasi palpabile, circonda quattro ragazzini, forse romeni a detta della gente che mormora intorno, di sicuro sporchi, poveri, stranieri. Incuriosita, Carlotta decide di avvicinarsi e scopre che quei quattro ragazzini, il più piccolo dei quali aveva 10 anni e il più grande 17 o 18, sono in realtà afgani, e si trovano lì, soli, dopo 4.950 km di cammino, quelli che separano Roma da Tagab, un piccolo villaggio sulle montagne al confine con l’Iran, fatto di “venti case, dieci mucche, tre strade, e il resto è fame, freddo e paura”. A piedi? Già, a piedi. Eppure, leggendo il libro scopriamo che ogni anno ne arrivano migliaia. È difficile stabilire con precisione quanti siano, anche perché per molti l’Italia è solo una tappa intermedia verso altri paesi. Spesso sono vittime dei trafficanti e del contrabbando (smuggling), che non è solo di droga, medicine o armi, ma anche di bambini. Quel giorno, su quell’autobus, è iniziata una conoscenza che non si è interrotta alla fermata successiva. Carlotta ha dato loro appuntamento la mattina seguente: solo Akmed si è fidato, gli altri tre sono poi partiti verso altri paesi.
“Era il 2008, – racconta – erano già cominciati i respingimenti, e la cosa più angosciante era che a nessuno sembrava importare poi tanto. Il giorno in cui ho incontrato quei ragazzini, qualcosa in me è scattato”.
Quella sera, di fronte a una città incapace, nonostante la sua storia di cosmopolitismo, di dare accoglienza a quattro ragazzini, Carlotta ha deciso di prendersi a cuore la loro vita.
“Spesso questi ragazzi arrivano in Italia pieni di aspettative, e qui si scontrano con la realtà, con la scoperta di essere stranieri in una terra dai costumi profondamente diversi dai loro: si ritrovano a vivere una vera e propria frana delle illusioni. (…) Per questo penso sia fondamentale promuovere due cose in particolare: la conoscenza della lingua italiana, che deve essere profonda, di ottimo livello, e non solo sufficiente ad esprimersi; e in secondo luogo la difesa della loro religione”.
Un pomeriggio di letture, ascolto e dibattito, introdotto e mediato da Sabrina Zanetti, direttore della Fondazione Enaip Interventi, che sottolinea che “a Rimini le strutture di accoglienza non mancano”.
Le immagini crude di Gabriele. Altre storie sono state raccontate: contenuti multimediali, foto, brani musicali, video girati proprio in mezzo al mare, su quelle barche piene di persone che vediamo approdare sulle coste del Bel Paese. Si tratta del materiale che Gabriele Del Grande, viaggiatore, scrittore e giornalista, ha tratto dal suo blog Fortress Europe, osservatorio sulle vittime della frontiera, che dal 1988 sono almeno 18.673, di cui 2.352 solo nel 2011. Gabriele, che per sei anni ha viaggiato attraverso il Mediterraneo, lungo i confini dell’Europa-fortezza, dà la parola alla poesia e alla musica. Quella che i giovani e giovanissimi dei quartieri popolari e più difficili delle città della Tunisia ascoltano ogni giorno.
“Nei testi di queste canzoni troviamo l’immagine della barca, il desiderio di partire, di bruciare la frontiera e passare senza documenti, sperando di salvarsi e riscattare così anche la famiglia, nella convinzione che rimanere nella propria città significhi fare una brutta fine. Ma a pensarla così è solo una minoranza, fatta soprattutto di ragazzi dei quartieri popolari: la maggioranza pensa qualcosa di totalmente diverso”.
Per non parlare del razzismo interno verso i poveri, della differenza di visioni tra la generazione dei padri e quella dei figli e, ovviamente, delle differenze tra paese e paese. Come a dire che le cose sono più complesse di quello che sembrano.
“Sull’immigrazione – dice Gabriele – spesso si fanno discorsi ideologici, che fanno leva sulla paura”. E prosegue: “gli immaginari cambiano e anche i numeri sull’immigrazione: gli sbarchi nel 2011 sono stati circa 50mila, mentre nel 2012 sono diminuiti a 5-6mila (…). Noi pensiamo che aprire la frontiera significhi aprire le porte a milioni di persone, ma non è così. Dalla Tunisia libera su 10 milioni di abitanti sono partiti solo 25mila ragazzi in una situazione in cui erano saltati del tutto i controlli delle frontiere.(…) Si tratta ormai di una minoranza, fatta soprattutto di giovani dei quartieri popolari, che vede nell’attraversare il confine una possibilità di riscatto per sé e per i propri genitori. (…) Anni di certe politiche e di un certo giornalismo hanno disumanizzato queste persone: l’antidoto è raccontare le storie di chi attraversa le frontiere, e farlo usando parole diverse e un linguaggio nuovo, evitando le solite etichette di immigrato o rifugiato”.
A proposito di disumanizzazione: il Dossier Statistico Immigrazione 2012 presentato da Caritas e Migrantes porta il titolo “Non solo numeri” e si ispira alle parole che Benedetto XVI ha pronunciato nell’Angelus del 15 gennaio di quest’anno, Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato: “Milioni di persone sono coinvolte nel fenomeno delle migrazioni, ma esse non sono numeri! Sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace”.
Giulia Catenacci