Già a Rimini nel 1872 il giovane Pascoli è un poeta moderno. Nella prima adolescenza e giovinezza compaiono “alcuni suoi temi tipici”. Nel modo di scrivere i versi per le nozze dei principi Anna Maria Torlonia e Giulio Borghese, ci sono i segni di “un corretto discepolato petrarchesco-leopardiano”. Ma soprattutto appaiono i primi bagliori della sua teoria sociale, “benché espressa in termini assai timidi e cauti”. L’ispirazione civile è nella quarta strofa dove una donna ed il suo fanciulletto attendono il ritorno impossibile del capofamiglia che sta morendo nelle sabbie mobili della palude. Ma, ci permettiamo di aggiungere, c’è pure quel passo che ha venature rivoluzionarie: “si succia ognor al povero le vene / sotto l’onesto vel di comun bene”.
Queste importanti annotazioni si leggono nel volume di Renato Barilli che, fedele alla pratica della critica letteraria che gli deriva dalla scuola di Luciano Anceschi, ha intitolato in modo originale il suo lavoro, soprattutto nella seconda parte: “Pascoli simbolista. Il poeta dell’avanguardia debole”. Il debito della cultura italiana verso Anceschi per la sua interpretazione di Pascoli, è dichiarato in fondo al volume, in una nota che passa in rassegna tutto quanto è stato pubblicato sul poeta di San Mauro. Anceschi nel 1958 raccoglie precedenti studi che vogliono porre Giovanni Pascoli nelle file del Novecento, anzi nella fase di passaggio “verso” il Novecento, per dichiarare quello che non c’è più del secolo precedente e segnalare quello che Pascoli annuncia per il secolo in cui conclude la sua vita.
Sarebbe stato interessante per Rimini invitare Barilli a parlare del giovane ribelle che vi ha studiato da poeta. Nel recente pomeriggio del 14 aprile dedicato allo Zvanì riminese, su tre ore abbondanti di interventi soltanto venti minuti (da parte del sottoscritto) sono stati dedicati al soggiorno di Pascoli nella nostra città tra 1871 e 1872, limitati soprattutto alla vita scolastica per non ripetere cose già scritte in precedenza. Molte questioni restano da affrontare, ed il libro di Barilli ne è conferma. Non interessa a nessuno creare un pubblico evento locale, essendo il precedente di aprile partito da un progetto bolognese.
Tra gli altri esempi del Pascoli giovane poeta, o poeta giovane, c’è “La povera piccina” che Barilli esamina pure in chiave sociologica: “Siamo ancora a dovere ricordare l’alto grado di mortalità infantile in quegli anni, dato oggettivo, statisticamente accertabile, che assegna una concretezza documentaria alle molte bare di bambini e di adolescenti”, che troviamo nei suoi versi.
Torniamo a quel sottotitolo sull’avanguardia debole, che è lo stesso Simbolismo, contrapposto alle avanguardie forti come il Futurismo che esaltava la “guerra, sola igiene del mondo”. Il Simbolismo è contrastato da “audaci quanto sfortunate” pattuglie le quali avevano una mentalità tutta a favore del sistema di Natura, contrapposto a quello della imperante Tecnocrazia. La loro riabilitazione critica risale agli anni Sessanta del secolo scorso, quando quei “parenti poveri”, quegli “avi di cui sino a qualche tempo prima ci si vergognava”, furono tolti dalle soffitte in cui erano stati relegati. Dopo la metà degli stessi anni Sessanta, “con un epicentro attorno ai fenomeni ancora di incerta interpretazione del ’68 e dintorni”, a Pascoli è affiancato il fratello D’Annunzio, se ho ben compreso il testo di Barilli, per una ragion politica che li considera poeti-vati da svalutare, dileggiare e liquidare.
Ma non è tutta colpa dei posteri se Zvanì nel 1911 applaude alla guerra di Libia, partendo (come scrive Barilli), da un’impostazione di sinistra e approdando ad esaltare un’impresa colonialista.
Antonio Montanari