“Qui basta guardarsi in giro per vedere che c’è quasi il tutto esaurito”. Lo ha detto a Rimini alla vigilia del 2 giugno il ministro Gnudi, con una valutazione forse un po’ generosa ma giustificata dalla necessità di dare un’immagine vivace del nostro turismo alle prese col rischio di disdette da psicosi sismica. Il ministro ha però avuto la buona creanza di non usare il termine “pienone”. Che da anni noi riminesi continuiamo a usare in modo improprio, nostalgicamente incapaci di farne a meno. Il “pienone” è un concetto dell’era pre-mucillagini, quando il fatto che un albergo fosse pieno non era un impedimento per accettare nuovi ospiti. E i nostri albergatori nelle loro stanze si producevano in fantasiose soluzioni che al confronto le proposte Ikea “abitare in 36 mq” sembrano la reggia di Versailles. Poi, anche se quei tempi d’oro per tanti motivi sono passati e irripetibili, abbiamo continuato a usare ancora il “pienone” come punto di riferimento dando vita, anche a mezzo stampa, ad assurdità lessicali come “quasi pienone” o “mezzo pienone”. Oggi l’obiettivo è riempire l’albergo: di più non si può e non si deve. Per motivi di sicurezza ma anche di legalità, perché spesso capitava che quegli ospiti nel “letto matrimoniale a castello” non venissero registrati e fatturati. E allora il nostro caro “pienone” mandiamolo una buona volta in pensione. Anzi, visto il suo passato glorioso si merita almeno di finire in un hotel a tre stelle. Anche perché così ce ne viene di più come tassa di soggiorno.